Società
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"Camera con
vista sui graffiti"
Sulla «spray art», come su ogni libera espressione che parte dalla
strada e dall’anima della gente che non ha niente da perdere, aleggia
lo spettro degli assessori che fiutano l’affare ...
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Mina
Saranno senz’altro meglio
delle strisciate gialle di urina. Quelle che profanavano i marmi del
Battistero di Firenze e che hanno fatto tanto arrabbiare la fiorentina
Fallaci. Meglio delle scritte amorose che inneggiano alle prestazioni
di qualche ragazzotta di paese o di città. Fatto sta che a Firenze i
graffiti colorati hanno da domenica un loro spazio autorizzato dal
Comune. I giovani graffitari potranno esprimersi con le loro spruzzate
in libertà. Ma solo in alcuni spazi individuati dall’amministrazione
comunale.
Superfici che sono state contrassegnate dal simbolo della città e
dalla scritta «spazio per la spray art». Certo. Meglio che la libera
espressione graffitara si eserciti in luoghi degradati, per dare
vitalità e colore ad anonimi muri fatti solo di grigio cemento armato.
Ma sotto sotto, nella concessione fatta dal Comune di Firenze, colgo
la sindrome della maestrina, tipica delle nostre istituzioni. Ai
discoli basta dare una lavagna autorizzata, sotto l’occhio vigile
della maestra, e tutto s’aggiusta. Eh sì, perché in un ragazzo che
deve guardarsi le spalle dalla polizia e di notte si mette a colorare
i muri delle città, c'è un aspetto ineludibile di sfida e di
contrapposizione alla «cultura» ufficiale.
Sulla «spray art», come su ogni libera espressione che parte dalla
strada e dall’anima della gente che non ha niente da perdere, aleggia
lo spettro degli assessori che fiutano l’affare: imbrigliare l’arte
che parte dal basso e farne uso per un restyling delle periferie
degradate. E così, dentro le belle scatole colorate della nostra
civiltà che impacchetta tutto, anche la rabbia e l’intelligenza, la
carica esplosiva viene neutralizzata. Pazienza! Arrivederci alla
prossima moda. E intanto il Comune di Firenze avvia dei corsi di
graffitismo e annuncia una grande manifestazione nella prossima
primavera.
Avevo in testa un’altra idea di Firenze. L’ho sempre immaginata come
la città che richiamava i grandi artisti, il grembo della bellezza in
cui ogni pittore, architetto, scultore ha sempre desiderato operare,
per continuare una tradizione che parte da Cimabue e da
Giotto e attraversa i secoli. Ora, invece, ci dobbiamo
accontentare degli interventi di «riqualificazione», con la nuova
uscita della Galleria degli Uffizi. Forse siamo stati abituati troppo
bene, con Giotto, Brunelleschi e Michelangelo.
Ora non c’è altra possibilità di scelta. Tra un architetto di regime e
i graffitari nella riserva indiana, l’arte è finita. E con lei anche
Firenze.
Avremmo bisogno di un nuovo Picasso. Di uno che, oltre a
dipingere clamorosamente, aveva anche la genialità di dire:
«Dipingere non è un’operazione
estetica; è una forma di magia intesa a compiere l’opera di mediazione
tra questo mondo estraneo e ostile e noi».
Ma di grandi così ne nasce uno nell’arco di un secolo. Se Dio si
ricorda ancora di noi.
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