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Mina
Non abbiamo ancora imparato l’italiano, lingua superba,
zuccherina e amara, difficile, nobile e amatissima. Lingua che ci
restituisce quell’autorità e quella dignità che stiamo perdendo per
strada.
Non l’abbiamo ancora assimilata, e accade che ci vogliano far imparare
l’inglese fin dalla prima elementare. Per carità, giustissimo
provvedimento che, però, ci ricorda che continuiamo, purtroppo, ad
essere una colonia, schiacciati sotto il piedone del «badrone»
americano, proprietario di tutto, anche della nostra anima... fra un
po’. E noi, in un rigurgito di desiderio di identità certa, ci
rifugiamo nelle braccia amorevoli e un po’ antiche del dialetto. Lo si
capisce anche dal fatto che un emendamento al decreto sul codice della
strada, accettato dal governo, riconoscerà agli enti locali una
maggiore discrezionalità nell’uso dei dialetti sui cartelli stradali.
La mania di storpiare i nomi ufficiali dei paesi, usando le bombolette
spray, era già dilagata nelle province lombarde all’epoca in cui la
Lega di Bossi cominciava la sua marcia contro il centralismo romano.
Poi il Carroccio, dopo aver conquistato i primi comuni, ha
ufficializzato il secondo cartello in idioma locale, come vessillo di
identità. Ora la possibilità si estenderebbe a tutti i comuni
italiani, da «Bèrghem», a «Zena» e a «Napule».
Mi sembra un po’ la rivolta dei poveretti, l’estremo gesto di difesa
di quelli che hanno un canestrello con due caciotte e mezzo salame e
se lo tengono ben stretto. E’ inutile e assurdo attribuire il compito
di salvare le identità locali alla toponomastica, tanto più che
l’infinito frazionamento linguistico, anche all’interno della stessa
città, renderà inapplicabile il provvedimento. A Cremona, se ti sposti
di tre strade, cambia la pronuncia e la grafia: «el veen» diventa «el
viin», e così come a casa mia in tutto il resto del paese.
Suscita un vago senso di ridicolo questo desiderio di particolarismo, dopo il genocidio di
tutte le identità e le appartenenze.
Si cerca di remare con ardore eroico nella direzione contraria alla
corrente che ci sta portando tutti verso la definitiva omologazione.
Mettere un cartello con scritto «Cremuna» o «Lèc» è un po’ come
l’estremo tentativo di difesa dell’ultimo soldato giapponese che
combatte ancora, mentre la guerra è definitivamente persa. Sì, perché
mentre si entrerà a Bèrghem, avremo l’hi-fi dell’auto sintonizzato
sull’Fm, che trasmetterà la stessa canzone che stanno sentendo a
Oklahoma City, saremo griffati con le stesse scarpe e le stesse
t-shirt che si producono a Seattle, e appena svoltato l’angolo,
cercheremo un Mac-Drive per rimpinzarci di schifezze senza neppure
scendere dalla macchina.
La lingua è appartenenza. Si sta tentando un’estrema respirazione
bocca bocca del dialetto, quando ormai pensiamo in un paciugo
linguistico che non è più italiano e non è ancora inglese, quando
ormai subiamo senza colpo ferire l’orribile linguaggio medio
televisivo, infarcito di luoghi comuni, che inonda soffoca e stramazza
quel corpo inerte che è l’Italia. Non ha più senso neppure il detto
«parla come mangi», in un’Italia che non sa più i nomi dei suoi mille
tipi di pane, di pasta, di formaggi, di vini e fa la fila per il brunch e per l’hamburger.
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