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Mina
Troppo
poche 48 ore per giungere alla soluzione del caso. Cinici
come siamo, ci siamo sentiti defraudati del sacrosanto
diritto all’ennesimo giallo estivo. Avremmo preferito i
colpi di scena, le infinite indagini della polizia
scientifica, il balletto degli arresti e delle
scarcerazioni.
E invece no. La resa di Olga è stata quasi immediata. E
forse solo nel momento in cui ha ammesso: «Sì, sono stata
io ad annegare i miei bambini», la madre ha cominciato a
riconciliarsi con se stessa. Innanzitutto ponendosi di
fronte al suo gesto assurdo, senza nascondersi dietro
l’alibi della follia. Ma nello stesso tempo quella
confessione, che non possiamo ricondurre solo ad
un’anomalia dell'anima, ci sbatte in faccia la nostra
fragilità, la nostra inadeguatezza.
Di Olga e di tutti noi.
Il suo gesto è come l’ingrandimento macroscopico di ciò
che, giorno per giorno, si consuma tra le mura delle nostre
case. E anche di ciò che tenta di snaturarci, sostituendo
al nostro vero volto l’astrazione di immagini esterne che
ci arrivano da non sappiamo quale disegno, ma che certo ci
inducono a disimparare il compito di costruire il quadro
faticoso, eppure reale, della nostra esistenza.
Non capisco. Continuo a non capire. Continuo a voler non
capire. Non appartengo alla schiera di quelli che, di fronte
ad un omicidio qualsiasi, sanno subito individuare la molla
che spinge a commettere gesti assurdi. Non
c’è perché, non c’è spiegazione razionale che
consenta di aprire un varco nel labirinto dell'animo umano.
Non c’è risposta alla domanda sul movente. Così continuo
a non capire e non mi rassegno alle spiegazioni dei
giornali. Mi sembrano troppo e, insieme, troppo poco
definitive.
Per l’ennesima volta sono costretta ad arrendermi di
fronte al terribile precipizio della distruzione, per il
quale non bastano le spiegazioni psicanalitiche o
psichiatriche. Forse siamo tornati al mito
perenne di Medea, che uccide i suoi figli, per vendicarsi
del tradimento del marito Giasone.
O forse c’è in gioco un perverso effetto imitativo, che
tocca ogni rapporto. L’ha detto il sociologo Sabino
Acquaviva:
«E’ quasi certo che per la mamma di Aosta si tratti di
emulazione. Il modello è Cogne»,
dove un’altra mamma, accusata, professa con forza la sua
innocenza. Se così fosse, occorrerebbe chiedere a tutti,
media in primis, di fare un passo indietro e di costringerci
al silenzio.
Non so. Io non possiedo le chiavi del cuore, non armeggio
con il bisturi dell’anima che conduce i più a proclamare
d’aver capito tutto. Troppo bene conosco l’amore per i
figli per rassegnarmi al fatto che la follia possa armare le
mani infanticide... no infanticida è chi uccide un bambino,
ma chi ammazza il figlio come si chiama? Vedi, non esiste
neppure la parola....
Un’estraneità subdola, fredda e ostinata s’insinua
attraverso il chiasso della società di massa. Una
frastornata indifferenza che ha origine nel cieco e
demenziale sforzo di estraniarci dal nostro stesso senso.
Ma, nonostante tutto, non si può vivere estranei a se
stessi.
Solo con questa consapevolezza ciò che è avvenuto in un
caldo pomeriggio, presso un laghetto della Val d’Aosta,
non è accaduto solo per la vergogna dell’uomo, ma anche
per la sua salvezza.
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