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Mina
Bar: «Pubblico locale tipicamente moderno...» leggo sul
Devoto-Oli. Chissà che cosa vuol dire «tipicamente
moderno»? Mi sembra, piuttosto, un posto più democratico,
ma non meno antico di un club inglese. Ogni bar ha
un’anima fatta dei fatti degli habitués. Tutto il resto
è marginale ingombro di saltuari disturbatori. Il bar della
vita è quello in cui si entra silenziosi e sicuri, con
qualsiasi umore e con la certezza di vedersi servire il
«solito» senza neppure chiederlo. Il cappuccino chiaro o
scuro o basso o senza schiuma o tiepido o con la spruzzatina
di cacao o decaffeinato o corretto (beeh!) non demoralizza
baristi pazienti. Li esalta nel loro esercizio mnemonico,
clou dell’arte dell'ospitalità obbligatoria.
Il bar è una isola per soli uomini. Qui le donne non
entrano. Soltanto quelle non sole, perché sono le donne di
«quegli» uomini, sono tollerate, anche se solo per un
tempo contenuto, alla mattina dei giorni di festa. La
mondanità è proibita. Vige solo la confidenza, non so dire
se anche l’amicizia. In una partita a scopa, in una sfida
a boccette, professionisti, disoccupati, imprenditori,
operai e artigiani appiattiscono le loro regole. Le
categorie non oltrepassano la fede politica o quella
calcistica. In quel locale si celebra il rito
dell'uguaglianza. È un posto dove il signor Rossi che beve
spuma si sente perfettamente identico a Hemingway che beveva
Campari allo Stanley di Nairobi.
Come in una piccola repubblica autosufficiente, sono
presenti tutti i mestieri e ognuno gode dell’aiuto
dell'altro, nell’isolato che circonda il bar. Il fascino
del suo retro sta tutto nelle cose da nascondere. E
l’elettricità dell’atmosfera si fa più stuzzicante,
quando i neon si spengono e la saracinesca chiude, lasciando
all'interno quattro amici per il pokerino con il
proprietario. Se poi ci sono biliardo e boccette, quello è
il bar dell’angolo sicuramente esclusivo, ma non per
snobismo. È sempre soltanto inaccessibile agli altri
perché è pieno di uomini, sempre gli stessi, che cedono il
posto soltanto ai figli uomini, sempre gli stessi.
Nei discorsi da bar si celano i tasselli invisibili dei
mille pensieri bagnati nel vino e sospesi tra profumi di
legni impregnati di fumo. I volti si intravedono nei
riflessi degli specchi e delle vetrine e le parole vengono
soffiate con accenti discreti, come fossero piccole
confessioni. Forse non sono più le parole che sostenevano i
progetti di un universale cambiamento, come nel
settecentesco caffè di Milano frequentato dai fratelli
Verri. Forse non saranno nemmeno le discussioni infinite che
univano Sartre e la de Beauvoir ai tavolini del «Aux deux
Magots» o del «Café de la Paix». Forse sono soltanto
parole, parole semplici. Certo è che lì passa la vita.
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