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Mina
Eccoci
di nuovo, colpevolmente stralunati, a dibattere con
ignoranza o presunzione un problema che avremmo dovuto
prevedere: l'eutanasia. Abbiamo fatto gli struzzi per
troppo tempo, affermando che la questione avrebbe riguardato
casi limite di nessuna rilevanza numerica e quindi sociale.
Ma oggi c'è un pezzo di mondo, che definiamo fortunato, che
vive potendo utilizzare i marchingegni ideati dalla medicina
e dalla tecnologia e che deve fare i conti con le sorprese
dello scontro tra terapia e biologia. L'etica e il diritto
avrebbero dovuto procedere «pari passi» con la ricerca
scientifica, che riconosce come obiettivo ultimo il
posticipo della morte. Oggi i cosiddetti casi limite sono
tanti, perché la scienza ci fornisce di strumenti
sofisticatissimi per la conservazione della vita ad ogni
costo.
Per definire i termini del problema possiamo cominciare da
una certezza: la libertà individuale. Non c'è bisogno di
schiamazzi per decifrarne il significato. È un principio
sacro. Ciascuno può decidere per se stesso quale sia una
situazione insopportabile.
Uno dovrebbe poter scegliere se vivere o morire,
indipendentemente dalle condizioni di salute. Anche se il
giudizio è deformato dal dolore o dalla disperazione,
nessuna interferenza dovrebbe essere consentita. Si tratta
di una scelta assoluta in cui la legge non c'entra, semmai
la religione. Che condanna i suicidi. Ma questo è un altro
discorso.
Possiamo, poi, smettere di confondere ambiguamente e
vigliaccamente le coscienze introducendo nel problema i temi
della terapia del dolore e dell'accanimento terapeutico che
devono essere trattati e precisati strictly in termini
medici.
Il nocciolo del contendere riguarda il suicidio assistito e
l'eutanasia che, ovviamente, hanno bisogno di un boia. Dal
dibattito di questi giorni pare che emerga l'esigenza nuova
di depenalizzare la figura del boia deputato all'esecuzione
della morte voluta. Ma pare che i boia siano difficili da
trovare. E non credo che chi ama, chi ha passato tutta la
vita a dire e a pensare «per sempre» possa agire in prima
persona per dare la «buona morte». La morte non è mai
buona. Non siamo preparati per la morte nostra, ma,
soprattutto, non siamo preparati per la morte di chi amiamo,
anche se continuiamo inevitabilmente a passarci in mezzo. E
allora il medico, il medico, che non è affettivamente
coinvolto, che è abituato ad esercitare un certo distacco,
dovrebbe essere la figura legale preposta a questo orrore.
Perché di orrore si tratta.
Non si può rimanere attoniti di fronte a questo scenario, o
perdere tempo frugando nella storia della filosofia, con
l'intento di formulare risposte nuove basate su schemi
antichi. Ci sono compiti precisi e irrimandabili.
Alla comunità scientifica è destinata la responsabilità
di definire l'irreversibilità di un processo o di uno stato
patologico, la prognosi di una malattia, gli effetti di una
terapia, compresi quelli indesiderati. Esiste poi il ruolo
della società, che ha il dovere storico di produrre leggi,
tenendo conto delle certezze scientifiche e delle necessità
dell'individuo.
L'uomo è mortale. Ed è necessario un atteggiamento umile,
rispettoso della sua caducità e della sua intelligenza. La
morte confonde, mescola, amalgama, miscela, sovrappone.
Fin qui il ragionamento, faticoso e che serve a poco.
Persiste il dubbio, il disagio, il gelo lungo la schiena che
credo non passeranno neppure quando ci sarà la legge che ci
permetterà di morire come vogliamo. Anzi.
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