Società

La Waterloo del congiuntivo

Mina



Ogni tanto è meglio astrarsi dalle questioni complesse del vivere e volgere lo sguardo altrove. A cose che sembrano o sono più leggere, ad esempio allo strumento del comunicare. Ogni tanto va fatto un check-up della nostra lingua. Da decenni, dopo la morte delle ideologie, si filosofeggia sulla morte del congiuntivo. Anche l’Accademia della Crusca vorrebbe mandarlo in pensione. Proprio loro, proprio i cruscanti che da quattro secoli vigilano sulla correttezza dei vocaboli e sull’italianità del lessico e della sintassi, sentono puzza di vecchiume nell’unico modo verbale che ci distingue dalla primitiva lingua albionica. Lo bolleranno come roba un po’ snob, residuo dei tempi gloriosi di Carlo Codega. Forse sarà perché la Crusca, ormai, recepisce l’uso e non emette più decreti. Boh!


Fatto sta che il palcoscenico di Sanremo, per non smentire la sua fama di culla del bel canto e del nobile eloquio, ha messo subito in pratica il congiuntivicidio. Entrerà nei manuali del neo-italiano l’esempio, molto esplicativo, della Arcuri che, per poter mostrare le sue doti chiromantiche, chiede a Baudo tenendogli la mano: «Vuoi che te la leggo?». Ma la Manuelona è solo l'ultima di un esercito di massacratori che ha avuto illustri capofila. Documento probante che pensiero e realtà ormai coincidono, e che quindi il congiuntivo lo si può lasciare alla razza estinta dei gentili, dei dubbiosi, degli auguranti, è una frase di Scalfari su «la Repubblica» del gennaio 1996: «Credo che Dio è un’invenzione della mente».


Ma se c’è uno che passerà alla storia per lo sfacelo delle concordanze è Di Pietro, principe dell’anacoluto e capitan reggente nella Waterloo dei congiuntivi. Anche la Crusca, dunque, ha smesso di parteggiare per la correttezza e ora sposa la causa del vincitore: l’uso determina la norma. Salvo poi dedicare tempo prezioso per almanaccare sui plurali e sentenziare che va guardato con compatimento chi osa ancora dire euri invece di euro. Ma a rinfrancare il cuore, a ricordare che forse la battaglia non è del tutto persa, arriva la notizia di una classe elementare veneta che, guidata da maestre benedette, ha avviato una petizione a difesa della correttezza della lingua, perché sia preservato tutto ciò che consente che la parola giunga al destinatario nella purezza della sua forma.


E poi c’è la questione di uno strano biliguismo italico. Dialetti e lingua nazionale convivono ancora abbondantemente, se non proprio nell’uso, per lo meno a livello di comprensione: il 90% degli italiani è in grado di capire un normale discorso nel proprio dialetto. Vi sono zone, come il Veneto e il Sud che sono più ancorate a quelle parlate locali, che sanno esprimere con più colore la concretezza dell’esperienza quotidiana.


Il dato è confortante, perché conferma che resiste l'Italia dei mille campanili che sa parlare ancora con l'accento della propria realtà. A dispetto della globalizzazione del gusto, delle normative-capestro di Bruxelles, dall'appiattimento causato dall’italiano medio televisivo,
il dialetto sopravvive a testimonianza di una Italia dove la comunicazione è ancora carica della passione per il particolare. Non potrebbe essere altrimenti nella terra dei mille modi per chiamare mille tipi di pane, di pasta, di formaggi, di vini. E anche dei mille improperi e delle centinaia di forme per mandarsi a quel paese. E qui è meglio il dialetto, è addirittura più preciso ed efficace. Non c'è paragone tra un pallido «vàttene» e un meraviglioso «va a ciàpal in del cül».

Mina, La Stampa,  16 marzo 2002

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