Società

Sanremo, la musica è finita

Mina



La cosa più bella di Sanremo è una foto di mia madre al «Veglione del bianco e nero». Una festa che si teneva, appunto, a Sanremo nel 1943. Splendida, scintillante, con un vestito lungo, da gran sera, di raso bianco con uno stupendo décolleté che le lasciava scoperte le spalle perfette. Lei non guardava in macchina e si stava accendendo una sigaretta delle centomila che avrà fumato nella sua vita. Era talmente bella che è finita su un settimanale dell'epoca, mi pare «L'Europeo», quando non era ancora «la mamma di Mina», proprio per questo suo fascino che lasciava senza fiato.


Allora il Festival non era ancora nato. E non se ne sentiva la mancanza.
Adesso il Festival ha 52 anni e, pare, non se ne può fare a meno. Non credo che sia lo specchio fedele della nostra società, no. Anzi non ci sentiamo affatto rappresentati né dal modo né dal contenuto. Piuttosto siamo felici e non vediamo l'ora di metterci lì a parlar male di quelli che, indifesi, si offrono alla lapidazione spettegolante d'Italia. Perché non saremo il popolo più musicale, non saremo il popolo più elegante, non saremo il popolo più intelligente né quello più colto, ma come sappiamo tagliare i panni noi, come riusciamo a trovare il ridicolo anche dove non c'è... per quello siamo gli incontrastati campioni del mondo.


E allora tutti i presentatori che non sono a Sanremo credono di essere di gran lunga migliori di quel poveromadonna che tenta di portare a casa con una qualche eleganza e autorità la serata. Tutte le attrici o top model che non sono là sono convinte di essere più bone, più spigliate, più adatte alla bisogna di quelle che appaiono sul palcoscenico. E, soprattutto, tutti, ma proprio tutti i cantanti che non sono là sono certi di essere meglio e di avere pezzi migliori. Qualche volta è vero e qualche volta no. C'è sempre qualcosa di nuovo che si fa strada in mezzo alla esagerata massa di proposte, qualcosa che spiazza, magari qualcuno che, con l'aria di essere lì per caso, sbanca tutto. E allora siamo tra lo stupito e il seccato, ma non resistiamo a lasciarci prendere dal piccolo fenomeno che, sotto sotto, ci aspettavamo.


È sempre stato così. Nel gran pancione festivaliero, al di là di qualche rara perla, poco o nulla si trova di decisivo. Qualche volta accade un piccolo miracolo. Ma occorre tutta la pazienza di Giobbe, tutta la più sovrumana capacità di sopportazione per scovare, nel gorgo delle paillettes, dei congiuntivi massacrati, dei pronostici scontati e delle onnivore discussioni del dopo-festival, qualche piccolo segno di genialità musicale. Il fulcro dello spettacolo, purtroppo, sta altrove. Sta nel contorno.
Ulteriore segno di una preoccupante perdita di creatività, a cui si cerca di far fronte presentandosi, magari col faccino pulito e rassicurante, a riproporre la stessa canzone di facilissimo ascolto, sotto diverse e variegate forme di clonazione musicale.


Non è difficile essere profeti. Tra dieci giorni, dell'eterno, popolare, ineffabile, ipertrofico, succulento Sanremone non ricorderemo quasi nulla. Se non lo show di Roberto Benigni che promette sfracelli. In fondo, tutti belli intruppati sui nostri divanetti a fiori, è questo che ci interessa. Della musica importa a qualcuno?

Mina, La Stampa,  2 marzo 2002

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