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L'intolleranza è degli altri

 

 Fin quando il razzismo sarà un virus che contagia sempre e solo gli altri.

MINA

È impressionante che nel 2001 se ne debba ancora parlare. Ed è assurdo che, alla faccia delle dichiarazioni di principio, il razzismo sia ancora un virus drammaticamente più letale di ogni altra epidemia. E così l’Onu decide di celebrare in Sud Africa l’ennesima liturgia: una settimana di discussioni durante la conferenza contro la discriminazione razziale. Come se non fossero già sufficientemente definitivi tutti i pronunciamenti, partendo da Gesù, passando attraverso la Rivoluzione francese, fino a Gandhi. Forse non ce ne siamo accorti, ma l’Onu aveva proclamato il 2000 come «Anno per la cultura della pace»; il 2001 è stato dedicato alla mobilitazione contro il razzismo e il 2002 sarà l’anno delle Montagne e dell’Ecoturismo. E, a costo di rasentare il cinismo, viene da pensare che queste conferenze siano solo vuoti riti che non spostano di una virgola la realtà, sontuose coreografie pubblicitarie che servono solo a dare visibilità ad un’Onu in crisi.

Un’assemblea che si autolegittima sull’orrore vero, che però percorre altre strade, quelle reali, in cui una qualsiasi differenza, non importa se razziale o ideologica, è ancora considerata pretesto legittimo per odiarsi ed ammazzarsi. E mentre a Durban ci si accapiglierà per decidere se il sionismo sia da considerarsi o no una forma di razzismo, continueremo distrattamente a guardare a quella conferenza come a un dibattito accademico che si svolge all’altro capo del mondo. Lasceremo sfogare i professionisti dell’antirazzismo sui loro cavilli, per sentirci poi liberi di disdegnare l’inquilino del piano di sotto. E’ inutile far finta che il problema non ci riguardi. Tutte le volte che un altro è visto come avversario, prendendo a pretesto la sua diversità, siamo vittime del virus. Non è solo questione del colore della pelle.

Hai il vestito firmato e il tuo vicino non ce l’ha, sei bello o no, che bavaglino hai, sei sano o handicappato, cammini diritto, sei mancino, sei simpatico, in che discoteca vai, con chi vai a letto e così via per tutta l’eternità.

Se è ovvio che discriminare ed insultare non sono elementi distintivi dell’uomo, che differenza c’è tra l’apostrofare «testa di cazzo» l’automobilista che ci taglia la strada e dire «negro di merda» al calciatore della squadra avversaria? Chi urla «buuu» ai neri negli stadi non brilla per intelligenza o civiltà, né più né meno degli antiglobal che sfasciano banche e negozi o del collega di lavoro, che valuta il tuo livello sociale dal colorito più o meno abbronzato della tua faccia e che cambia il suo giudizio se quella tintarella l’hai presa a Porto Cervo o a Cesenatico. Ma non trovo nemmeno differenze sostanziali tra i libri di «educazione islamica», finanziati dall’Unione Europea, che raccomandano di «diffidare degli ebrei», perché sono «disonesti e sleali», i proclami dei pacifisti armati di parole violentissime e la decisione di rimuovere Platinette ovvero Mauro Coruzzi ovvero persona dotata di grande intelligenza da un programma che, a giudizio di un ministro, la sua presenza avrebbe reso diseducativo. Così va il mondo. Fin quando il razzismo sarà un virus che contagia sempre e solo gli altri.



Mina
La Stampa, 1 Settembre 2001

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