S O C I E T A' |
L'eterno riposo elettronico
E' stata installata la prima «lapide multimediale». Al posto della foto del defunto campeggia un monitor che, azionato da un telecomando, può trasmettere testi e filmati della persona cui la lapide è dedicata. |
MINA Non c’è quasi più anfratto o pertugio del vivere che non sia attraversato dai fili della tecnologia. Fili, tasti e pulsanti, sia chiaro, che ci legano alla comodità, fino al momento in cui, malauguratamente, qualcosa ci si rivolta contro, che sia un diodo o una centrale nucleare poco importa. La distesa dei giorni terreni è tutta poggiata su questo fondamento elettronico-multimediale. Che può arrivare anche fino al respiratore artificiale. Se c’è un confine definito a tutto questo intricatissimo groviglio di fili e di fibre ottiche, è certamente la morte. Se non altro, lo era fino a ieri quando, almeno sottoterra, l’eterno riposo era ben lungi da ogni diavoleria elettronica. Ma nel crollo rovinoso di ogni certezza, anche quest’ultimo spazio di pace sta già subendo i primi attacchi. Nel piccolo cimitero di Settima di Gossolengo, un paesino nei pressi di Piacenza, è stata installata la prima «lapide multimediale», frutto della genialità, si fa per dire, di un inventore locale. Al posto della foto del defunto campeggia un monitor che, azionato da un telecomando, può trasmettere testi e filmati della persona cui la lapide è dedicata. In epoche di «Grandi fratelli» e di iconocrazia dilagante, ci mancava solo questa. La lapide multimediale, eterna conservatrice delle umane sembianze, sarà forse l’ultima spiaggia per quei pochi che non siano riusciti a trovare, da vivi, il modo per eternarsi nell’immagine televisiva. Quei poveretti che, pur sgomitando, non avranno trovato spazio in uno qualsiasi delle decine di talk-show dedicati ai «casi umani», più o meno pietosi, si potranno ormai consolare. Come dire: il video eterno me lo faccio da me. E allora dovremo darci da fare per trovare un fedele cameraman, oltre a un truccatore e a un datore di luci, sempre pronti a seguirci nelle nostre gioiose traversie o a coglierci nei momenti migliori. Dalle prime poppate fino all’insorgere della prima canizie o delle prime rughe. Dopo no: non sarebbe à la page e farebbe troppo anticaglia l’immagine sbiadita e tremebonda dei nostri ultimi anni. Che dovremo inevitabilmente trascorrere tra migliaia di metri di filmato, tra cui scegliere, con tagli, ritagli e frattaglie, «the best of my life». Sarà inevitabile trovare il modo di ammortizzare i costi di questo dispendiosissimo set a cui avremo ridotto la nostra vita, magari con l’inserto di qualche spot pubblicitario, che so, tra i primi calci al pallone, il primo bacio e la faccia estasiata in occasione del primo stipendio. Fino a qualche decennio fa, si affidava ai beni materiali il compito di mantenerci in vita, affidando ai figli o agli eredi ciò che si era costruito sulla terra. Ci si eternava in un’eredità. O in un’opera d’arte. E in ogni caso, anche a chi la vita non aveva riservato ricchezza o genio, era data la possibilità di permanere nella memoria, potente d’affetto, dei propri cari. Ora, invece, si è trovato il modo per riscattarci definitivamente dall’anonimato, almeno da morti, affidandoci all’immagine perfetta che avremmo voluto avere da vivi. Attraverso la consegna di noi stessi a un video. Che per me, che ho sempre considerato violenza anche la foto del defunto, è il massimo della macabra vacuità. Pavese, dopo la sua morte, non avrebbe voluto parole o chiacchiere. «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto». Se fosse vissuto oggi, avrebbe aggiunto «Non immagini». L’uomo non abita nella prigione della carne.
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Mina
La Stampa, 25
agosto 2001