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Il diritto di annoiarsi

MINA

I camicioni di lino, bianchi e larghi, come confezionati da provvidenziali colpi di vento, sono sbandieratori appagati dalla loro lotta contro la calura estiva. Come benevoli fantasmi sotto i portici della vacanza, si rassegnano a sgualcirsi sui vimini delle chaises-longues e delle dormeuses. Nella gloria del disteso pomeriggio, lontano centinaia di chilometri dal subbuglio cittadino, l’odore della salsedine e dell’erba appena tagliata si fondono confondendosi. Solo da poco, dopo veglie occasionali e finalmente facoltative, ho potuto distinguerli, goderli con calma. Mi è parso di vederli, quegli odori, insinuarsi nelle fessure delle persiane, nelle stanze dei bambini assonnati dalla siesta, per svegliarli con dolcezza. Il giardino delle delizie è così vicino. In un’occhiata, in un silenzio, nel trattenermi dallo sfiorare la tua mano, gusto un po’ più a lungo la voglia di farlo. Alla fine allungo il braccio fuori dai confini della mia vecchia sdraio, fino all’edizione tascabile della «Divina Commedia». Dietro una colonna granulosa ci si ripara dalla brezza infuocata. Tu leggi immobile, sistemato su una sedia di vimini. Ad un insetto di passaggio, un movimento quasi impercettibile del mio e del tuo capo fa intuire un breve scambio di impressioni. La fretta è stata lasciata dietro la siepe di alloro. E’ ormai vietato lasciarsi cogliere dall’agitazione. Lo proibisce la languida estate.

Conosco persone che, come me, adorano annoiarsi. E trovano il modo di farlo, per lunghi periodi, benissimo. Poi, a un tratto, li coglie, come uno scrupolo, un eccesso di efficientismo e fanno in pochi giorni quello che altri fanno in mesi. Poi tornano legittimamente ad annoiarsi in tutta tranquillità di coscienza. D’estate e in altri fantasmi di stagioni. Rientro nell’ombra. E subito la osservo lì, nel pulviscolo mosso dall’aria, in un raggio di sole entrato dalla finestra, quella piccola idea. Si regge su una gamba sola, nell’indecisione se poggiare al suolo anche l’altra. Poi prende a saltapicchiare tutt’intorno, lasciando al suolo l’impronta di un solo piede. Come in un dormiveglia mi salgono agli occhi, in un ordinato paesaggio giottesco, figure geometriche a colori vivaci, ognuna perfettamente incastonata nel proprio spazio. Una sfera, un cubo, parallelepipedi di ogni grandezza, in uno sfondo nero, immersi in una doccia di luce. Mi riposo un attimo e poi riapro gli occhi. E poi la piccola idea ritorna. Attraverso quella finestra, che non assomiglia più a quella di Cremona, in via Cesare Battisti.

Da ragazzi, durante le feste, dopo aver ballato e riso e bevuto e mangiato, era più bello guardare fuori. Tu abbandoni il libro e la sedia di vimini. Si avvicina il tramonto, che mi sembra sempre di un unico sole, che cade nell’ansa del Po prima della Bissolati. Chi mi spiega, per favore, il fatto che l’universo si espande continuamente?


La Stampa, Sabato 30 Giugno 2001

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