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Per la vittoria non basta un gol

Dopo le elezioni del 13 maggio 2001: Un paese che non sopporta più l’arroganza e l’invasività di uno Stato sempre più tronfio nella sua retorica e nella sua volontà salassatoria e sempre più assente dove il suo intervento sarebbe necessario.

MINA

Il derby è finito. Per fortuna. E anche i faccioni ammiccanti che dardeggiano dai vecchi manifesti cominciano a sfarsi e a reclinare il capo, con la complicità del sole feroce di questi giorni. Il derby è finito. Ora bisogna pensare al campionato. Che sarà tutt’altro che una passeggiata. Berlusconi, si sa, non si lascia spaventare dalle imprese impossibili. Non gli è costato molta fatica piazzare un 3 a 0 contro un’armata sostenuta da giornalisti-soloni e filosofi deboli, scrittori prolifici e registi in crisi, attrici pasionarie e salotti buoni. Il bello viene adesso. Quando si tratterà di mettere mano alla macchina dello Stato e ridare slancio ad un paese umiliato nella sua originale capacità di creare imprese e lavoro. Il vero match si gioca ora.

E la lotta più dura, per la squadra di governo, sarà quella per cercare di ridare fiato a un paese sfiduciato e raggrinzito su se stesso.
Un paese che non sopporta più l’arroganza e l’
invasività di uno Stato sempre più tronfio nella sua retorica e nella sua volontà salassatoria e sempre più assente dove il suo intervento sarebbe necessario.
Un paese a rischio di estinzione fisica, con il record mondiale di denatalità, e in cui la disperazione dei giovani senza lavoro, diventa il detonatore che minaccia di deprimere la speranza nel futuro. Non basta un gol per cantar vittoria.

La partita è lunga. Per Churchill, che non era l’ultimo arrivato in fatto di successi politici, i problemi della vittoria sono più piacevoli di quelli della sconfitta, ma non meno difficili da risolversi. E io, che non amo le deleghe, che non ho mai considerato lo Stato come origine e fine della privata esistenza umana, non chiederei nulla a chi sta per assumere i compiti di governo. Se non la capacità di interpretare i desideri di un popolo, elementari e potenti, di poter vivere secondo l’intensità dei propri legittimi progetti. Sarebbe il caso, proprio per questo, che lo Stato facesse molti passi indietro, liberasse spazi per dare la possibilità ai soggetti di agire e di costruire. E si occupasse solo dello stretto necessario perché una società possa esistere e crescere.

Non chiedo a quest’entità suprema di prenderci in carica, come una mastodontica baby-sitterona col compito di accudirci. Vorrei che fosse spazzata via l’idea di uno Stato che disegna un mostruoso reticolo di norme e di convenzioni, fatto apposta per organizzarci la vita, nell’illusione di strozzare la nostra identità dentro un sistema che pretende di darci sicurezza. Nessun sitteraggio. Perché, in definitiva, la partita della vita si gioca in un campionato diverso da quello della politica.

La Stampa, Sabato 2 Giugno 2001

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