Galatro ed i suoi Poeti
Una
poesia profana dell’Abate Martino
La difesa della scorreggia
di Michele Scozzarra
Nei giorni
scorsi mi è capitato di ripescare, tra i logori fogli della mia
carpetta, una vecchia poesia dell'Abate Martino, del quale ho già
scritto su queste colonne, che si è presentata come una paradossale
satira, che “solo ad un distratto lettore può apparire eccessiva
fino ai limiti della scurrilità”.
L'abate
Antonio Martino (Galatro 1818-1884) è stato grandissimo nelle
“poesie politiche” che rappresentano il nerbo fondamentale di
tutta la sua produzione, nelle quali emerge chiaramente tutta la
personalità del prete liberale e deluso, quanto “irrequieto e
mordace, insofferente alla servitù e perseguitato perché assertore
di libertà anche dal pulpito”. Nelle poesie politiche del Martino
emerge la satira spietata rivolta contro coloro che erano ritenuti
liberatori, ma che una volta giunti al comando dell’Italia si
comportarono peggio degli antichi padroni.
Martino è
stato grande anche nelle "poesie sacre", che rappresentano
l'ultima sua produzione, composte poco prima della sua morte: in
queste il Poeta non usa il dialetto, ora non si rivolge più agli
uomini, ma a Dio e deve trovare un linguaggio privo delle volgarità
che avevano caratterizzato le opere profane. Nelle “poesie sacre” Martino arriva ad affermare che tutto quello che aveva scritto nella sua vita era stato inutile. Infatti, arriva ad affermare che la vera gloria, per lui non può esistere sulla terra. Mirabile, nel senso ora descritto, e merita di essere riportato integralmente, il “ritratto” del Poeta del 1879:
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Le gelosie d'altrui e i folli amori in quell'età più perigliosa e cruda, onde al fuoco s'agghiaccia, e al gel si suda, cantai, spargendo invan febèi lavori.
Ma, delle umane cose, or che i colori variati non veggio, e scorgo nuda la verità, né fia chi più m'illuda l'ultimo addio do a Filli, a Lesbia, a Clori.
E a que’ nomi fantastici e bugiardi di Venere, d'amor, di stral, di face, mia Musa oggi neppur volge gli sguardi.
Gitto il plettro profan, e sol mi piace Consacrar le mie rime (ahi troppo tardi) A Dio che rese al cor l’estinta pace. |
Ma
Antonio Martino è stato grande anche nelle “poesie profane”, dove
si è divertito a satireggiare persone, costumi e, soprattutto, donne,
senza alcuna preoccupazione a moderare i termini del linguaggio: il
problema non esiste, il suo “spirito libero”, non poteva
assolutamente essere limitato da alcuna regola.
“La
difesa della scorreggia” è una delle “poesie profane” più
belle del Martino e se, da una parte, fa ridere per la stravaganza
della situazione, dall'altra, non smette di meravigliare e stupire il
lettore.
Lo stesso
Martino presenta la poesia come “scritta in occasione che Monsignor
Teta di Oppido sospese a Divinis un venerando vecchio Canonico di
quella Cattedrale, per aver tirato involontariamente un peto nella
presenza di lui”.
Ed il
Prof. Piero Ocello, nel suo pregevole libro: “ ...di la furca a lu
palu", dove, con tanta fatica e passione, ha raccolto tutte le
poesie di Martino, a commento de “La difesa della scorreggia”
dice: “La satira dal motivo piuttosto paradossale ed insolito prende
il via dal sentimento offeso del Poeta per un provvedimento certamente
sproporzionato alla colpa di un vecchio Canonico, sospeso a divinis
per essersi lasciato sfuggire, in presenza del Vescovo, un volgare
inequivocabile... suono”.
Ed
è proprio tale esagerazione che suscita lo sdegno del Poeta che non
ignora certo il decoro e la compostezza, inneggiando ad uno stato di
primitiva bestialità, ma che allo stesso tempo si leva in difesa di
un atto naturale così aspramente condannato da ipocriti benpensanti
che sembrano apprezzare comportamenti solo formalmente irreprensibili.
Si arriva così al paradosso, alla “difesa” del galateo della
natura, contrapposto a quello dei saccentoni. I quali, facendo torto
“all'ordini di Deu” hanno inventato regole di comportamento non
assurde, ma nelle quali sembra rinchiudersi e limitarsi ogni loro
ideale.
In
questa ottica possiamo accettare, senza scanda1izzarci, anche le
espressioni più triviali, i paragoni più arditi con cui Martino
rivendica la “libertà” naturale accanto alla “libertà”
politica.
E l'invito
sfacciato a infischiarsene delle regole del galateo ufficiale assume,
senza timore di alcun equivoco, il significato di una esortazione al
buon senso del popolo, all'equilibrio naturale dove l'armonia tra
corpo e spirito non deve essere soverchiata e afflitta da
sproporzionati divieti. Queste
le motivazioni che reggono e giustificano il sarcasmo e la paradossale
ribellione del Poeta".
Il passo
del Prof. Piero Ocello rafforza la mia convinzione alla pubblicazione
su Proposte, di questa poesia che in ogni frase riesce, bonariamente,
a far sorridere.
E senza
alcuna vergogna per aver sorriso e senza alcun pentimento, come spesso
capita quando la risata è ottenuta con la sollecitazione dei più
bassi pettegolezzi e delle più terribili maldicenze. E, soprattutto, senza alcuna villania, ma in una tenera consapevolezza dei limiti della nostra umana misura. |
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La difesa della scorreggia |
Quand’autru
canta guerri e capitani,
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* | Da Proposte, Anno 5° n. 2, 16-31 gennaio 1991 |