Galatro
|
Rocco
Distilo:
|
di Umberto Di Stilo
E’ il momento di tentare un primo bilancio della testimonianza poetica di Don Rocco Distilo, ora che la sua pausa si è spenta per sempre. Ha lasciato tre volumi pieni di versi e ai conoscenti un grande bagaglio di ricordi che difficilmente svaniranno. Distilo si innesta a una tradizione poetica antica e ne testimonia le duratura fecondità, una tradizione infiorata dei nomi già illustri di Conia e Martino (che, come vogliono alcuni critici, per certi aspetti, furono superati dal Nostro). Per inquadrare nella sue giusta luce la figura artistica di questo poeta è necessario conoscere Galatro, il suo habitat, non ancora turbato dalla tecnologia, un mondo per tanti versi chiuso in se stesso, attorniato dalla muraglia delle sue colline. A Galatro, dove il tempo scorre lento come per molti paesi della Calabria, c’è posto per la malinconia, l’apatia, il pessimismo; c’è poco spazio per la speranza. Rocco Distilo ha dimostrato che in un ambiente simile c’è anche la poesia, che è possibile aprirsi alla vita e scrollare di dosso l’atavica sonnolenza che grava sugli alberi, sulle cose, sulle strade ed avviluppa le persone. Per Distilo ogni giorno era un’avventure nuova. La sua opera poetica è, pagina dopo pagina, un diario, il resoconto di una vita vissuta nelle sua pienezza. Nasce a Galatro l’11.11.1908. L’infanzia e l’adolescenza le trascorre in Calabria e coincidono coi tempi in cui la martoriata regione viene provata da grandi tragedie: dopo il terremoto del 1908 la fame e la povertà e, quindi, le guerra mondiale. Il fanciullo sente le sua vita come una vocazione all’amore ed alla donazione. Sceglie la via del sacerdozio ed entra nel seminario vescovile di Mileto. La sua vocazione poetica è già in germe, come anche l’indole propensa ella speranza ed all’accettazione della sofferenza come mezzo di elevazione spirituale. Dopo gli studi liceali compiuti a Catanzaro e quelli teologici a Firenze, ritorna nella sue terra dove riceve, dal vescovo Paolo Albera, la consacrazione sacerdotale (1.8.1937). Comincia allora la sua attività di pastore di anime dove nella semplicità o nella mansuetudine ha modo di realizzare la sua personalità. Parroco per diciotto anni a Feroleto della Chiesa (1937-1955), per sei a Monsoreto di Dinami (1955-1961), per dodici - gli ultimi della sua vita – a Galatro (1961 - 1973). Sono queste le linee essenziali della sua biografia. Lo storico potrà infiorarle di particolari per rendere più perspicua la figura adamantina di questo sacerdote - poeta. Verranno fuori le sue prime giovanili prove poetiche, ospitate da riviste varie, la lunga sfilza di onorificenze, segnalazioni, premi letterari, le sua passione per la musica e le composizioni di inni sacri e canti liturgici. Verrà fuori il particolare del servizio militare: le divisa militare (che fu costretto ad indossare nel 1929, ancor studente liceale) gli ritardò gli studi di qualche anno. Di quel triste periodo della sua vita, il Poeta ricorda: “... in marchigiana terra./ .... a scribacchiare carte, / e nella lunga tristezza e nel ricordo / d’una perfidia umana,.....”. L’allora studente Distilo, infatti, per la “perfidia” di alcune persone galatresi dovette interrompere gli studi per adempiere agli obblighi militari. (Ad Ascoli Piceno faceva lo scrivano nell’ufficio del comandante del Distretto Ten. Col. F. Pascazio). Verrà fuori il molto materiale inedito, i due romanzi ("Piazza Matteotti" e “Giornate di sole”), gli studi critici su Conia e Martino, le moltissime composizioni in lingua e in vernacolo (che fra non molto, a cura del fratello ins. Francesco e del nipote prof. Rocco, saranno raccolte e pubblicate in volume), ecc. Ma la sua biografia è, dicevamo, raccolta nei tre volumi di poesie. “Prime luci nella valle” (Milano 1958) esce in occasione del primo ventennio sacerdotale (1937-1957). Nella dedica sono indicati i grandi valori che furono alimento della sua vita e che ora danno fecondità perenne ai versi: “La poesia e la preghiera, la bellezza e l’amore”. I brani di vari autori, i pensieri o i versetti biblici intercalati con le liriche fanno del libro una vera aiuola di fiori rari. La liriche sono preghiere, riflessioni, soliloqui. C’è una pregnanza nei versi, un desiderio traboccante di amore e di pace. La giovinezza dello spirito crea miracoli: il paesino calabro, immoto e sonnolento, si anima di una luce nuova, tutto parla di Dio: le stelle “occhi lucenti nella notte”, la “garrula fonte” che “di cielo favella”, l’ulivo che “a pace invita / perduta pace dopo tanta guerra”; l’ape “piccola goccia di sole”, l’allodoletta “che sale in alto dalla terra al sole / ebbra di gioia”. Insomma, “tutta, tutta la natura canta”. Emerge evidente la natura della nostra tradizione lirica. Riemerge, illuminato dalla luce della fede, il poeta fanciullino. Dal punto di vista estetico è evidente il sodalizio spirituale col poeta della “piccozza”, Giovanni Pascoli. La poesia anche per Rocco Distilo, non è soltanto “arte per l’arte”. E’ di più. E’ il viatico del viandante “che trita / notturno piangendo nel cuore / la pallida via della vita”; è “la povera lampada c’arde soave / nell’ore più meste e più tarde...” Non mancano voli d’aquila come la lirica “Pioggia di maggio” dove i versi conclusivi (“nel vasto piano la capanna fuma / e su quel mar di verde par si muova / nave in cammino, verso ignoti lidi”) ci trasportano nella più ispirata atmosfera georgica virgiliana. Solo che alla grave malinconia delle ombre vespertine che, agli occhi del poeta pagano, invadono e raffreddano la terra, si sostituisce l’arcana inquietudine del movimento, che richiama il senso itinerante della vita, e cede allo stupore davanti al mistero, sentimento squisitamente pascoliano (cfr. Il ponte: “Il fiume va con lucidi sussulti / al mare ignoto dall’ignoto monte”). Il poeta “fanciullo” è anche ingenuo e non ha ancora imparato a diffidare dei luoghi comuni dalla retorica fascista. Lo studente universitario che torna cieco dalla guerra (v. Luce bella addio!, pag. 49) si dona alla Patria come all’ideale supremo e, per nulla conscio di essere vittima di strumentalizzazione, prova slanci sovrumani: “a te questi occhi, terra mia gentile!” Il secondo volume, "Uno è l’amore" (Parma 1963) mostra una ormai matura coscienza di uomo e di poeta. Allo slancio giovanile, non ancora peraltro sopito, subentrano le prime gravi meditazioni della maturità. Il Poeta ha ormai uno stile suo personale, inconfondibile, affrancato da influenze di scuola. L’onda dei ricordi è la linfa più vitale. Il clima più confacente al suo stato d’animo è l’autunno, la stagione carica di frutti, simbolo della maturità e presentimento dell’inverno freddo. Così il Poeta-sacerdote scrive parole velate di una delicata e pensosa nostalgia: “Bianco capello, così tardi arrivi / degli anni a dirmi, o giovinezza, addio?/ Amo l’ottobre da’ pregnanti clivi / d’uve e di pomi: non invoco oblio.” Il tema è sempre lo stesso: l’ordine e la bellezza del cosmo con le sue cose grandi e con le piccole, tutte oggetto di stupita ispirazione da parte del poeta, tutte creature di Dio, turbate a tratti della cattiveria degli uomini (cfr. Non uccidere le rondini, pag. 13). Si può definire Rocco Distilo un Pascoli con in più la fede ed il sacerdozio. In “Uno è l’Amore” i momenti di più intenso lirismo sono le ricordanze dell’infanzia (vedi: La mia vecchia maestra, pag. 21) e della giovinezza (vedi: Ritorno al mio vecchio seminario, pag. 17). Alle soglie delle vecchiaia tutto gli parla di approdo: le barche ancorate (pag. 38), i cipressi solitari (p.44), il melo caduto (p.45) simbolo delle vita che trapassa. Davanti al melo caduto non c’è rimpianto dei “saporiti pomi”, del verde, della prestanza che non è più, c’è il senso di gioia che proviene della donazione di sé, dal sacrificio per gli altri: “bello è cadere carico, non vuoto”. Il terzo volume, "Di sentiero in sentiero" (Roma, 1967) s’innesta ed un’esperienze lirica ormai matura e si apre a nuovi spunti, peraltro non sempre felici. Penetrano, infatti, qualche volta preoccupazioni e riflessioni di carattere sociale che turbano l’atmosfera trasognante e sofferta del poeta che “ama, lacrima e canta". Lo spunto sociale, che per Domenico Defelice, prefatore del volume, è una conquista, appare, invece, nel contesto dell’opera poetica una stonatura (cfr. Spazzini, pag. 38), anche se detta, in altri casi, versi altamente ispirati. (vedi “4 novembre”, pag. 51). Ma la linfa del vecchio poeta non si è spenta. Quando riappaiono i motivi antichi, il verso si fa sublime. Anche la realtà più scialba è illuminata dal bagliore della fede e nella pagina si trasfigura. La lirica Quando le notte è alta (pag. 30) è satura di richiami leopardiani: il colloquio notturno con la luna, il pastore errante, le greggia umana che dorme immemore. Ma il poeta recupera presto le sua identità, ritorna nel suo mondo; la lirica Lasciatemi tornare (pg. 37) è il prodotto dei momenti di maggiore aderenza a se stesso: “Lasciatemi tornare alla mia pace /..../ Là tutto mi somiglia / chè avido di spazî e d’orizzonti / interminati, / in essi immergermi e mutarmi.” Insomma Rocco Distilo è un poeta romantico e nello stesso tempo un poeta nuovo. Non appartiene ella folta schiera degli inquieti, dei figli del decadentismo, i torturatori di versi, poeti psicopatici e immelanconiti. Rocco Distilo è un poeta che canta. Ha parole di speranza e di pace: “Se vieni, tristezza, e mi vuoi / non sfiorarmi l’ala tua nera./ Non sento più il tuo querulo pianto./ Io sono in quel mare, in quel cielo,/ nel sole: felice io canto”. Il
cammino del Poeta ha coinciso con l’itinerario
esistenziale dell’uomo.
Fin da quando sentì accendersi le “prime luci” nella
valle, la
poesia fu per lui il manifestarsi di una tensione sempre più
grande, di sentiero in sentiero, verso Dio. |
Umberto Di Stilo
Il Giornale di Calabria, venerdì 5 ottobre 1973, pag. 9