GALATRO ed i suoi POETI:

Ettore Alvaro

CU SU' JEU

Presentazione della silloge di Ettore Alvaro
 

Umberto Di Stilo
 

Ho sempre ritenuto che la modestia e l'umiltà sono generate dall'ingegno e dalla sapienza. Adesso me ne dà conferma il comportamento di Ettore Alvaro un poeta che, nonostante vanti una pluridecennale attività, è rimasto ancorato ad una modestia che spinge alla riflessione e che, per contrasto, richiama alla memoria l'arroganza e la superbia dì tanti poetucoli che, per aver pubblicato (a proprie spese, ben s'intende!) qualche silloge, ritengono di avere oscurato la fama di Dante o, per rimanere nel mondo poetico calabrese, quella di Duonnu Pantu, di Mastru Brunu, dell'Abate Conia, di Vincenzo Ammirà, di Antonino Martino, di Nicola Giunta, di Vittorio Butera ... tanto per citare alcuni dei nostri grandi.

Non è questo il caso di Ettore Alvaro il cui nome - così come da anni ufficialmente gli viene riconosciuto dalla critica qualificata - senza alcun timore riverenziale deve essere accostato a quello degli autori che hanno dato lustro alla nostra letteratura vernacola.

D'altra parte, fattosi conoscere nel lontano 1933 con la silloge Scifìdhi, Alvaro ha successivamente consegnato alla letteratura calabrese opere che, per la loro liricità e per la loro delicata ispirazione, costituiscono un preciso punto di riferimento nel variegato e vasto campo della poesia vernacola bruzia.

Ciononostante, dal momento che la sua modestia è pari alla sua stessa grandezza poetica, Alvaro con Cu su’ jeu (e dopo una sua presenza costante e qualificata nel mondo della poesia calabrese che dura ormai da circa sessant’anni) sente ancora la necessità di presentarsi per rivelare ai lettori ed estimatori il suo mondo interiore e tutti i suoi interessi dì uomo e di poeta.

Da un'attenta lettura di questa silloge, infatti, nitidi e chiari balzano fuori i sentimenti e gli affetti dell'autore, le sue ansie e le sue certezze. prima fra tutte quella che gli vien data dalla religiosità che, ancorata a di principi cristiani, in Lui diventa Fede incrollabile e vivificatrice, elemento ed “alimento” indispensabile per vivere una vita degna di tale nome per appagare i quotidiani bisogni dello spirito.

La Fede in Alvaro è linfa inesauribile di ispirazione per opere come  'A gonìa e 'a  nchianata ô Carvariu, Via Crucis, Patannostru e Avi Maria, le quali oltre a rappresentare il suo rosario dell'anima costituiscono il vertice della lirica religiosa calabrese.

Profonda religiosità promana anche dai numerosissimi inediti ispirati alle Parabole evangeliche, alla Genesi, ad alcuni episodi degli evangeli apocrifi, nonché ai quindici misteri del Rosario.

Un continuo richiamo al Creatore ed alla Sua Madre Santissima si riscontra, inoltre, in  tutti i suoi componimenti.

D'altra parte anche diverse poesie inserite in questa silloge offrono l'opportunità al poeta di esprimere la sua interiorità cristiana e la sua profonda religiosità.

A tal proposito è sufficiente soffermarsi su Gerani, Perdùnami, Signuri, Vitti surgiri ‘u suli stamatina, Trittico, Mi scialu, A mmia stessu, Vorrìa.

In esse Alvaro, con un melodioso fluire di versi, si sofferma a descrivere la delicatezza dei fiori, l'incommensurabile bellezza di un'alba in riva al mare e di qualunque altro spettacolo naturale, sia esso il canto degli uccelli che il lento e fitto fioccare della neve, il tramonto infuocato del sole che lo spirar dei venti. E in tutto ciò canta la potenza del Creatore che, benevolo nei confronti degli uomini, ha voluto riservare ai mortali simili paradisiache visioni.

E non si può sottacere e non ricordare la profonda devozione per la Madonna della Montagna di Galatro a cui, con fresca immediatezza lirica e ricchezza di suggestioni a cui non sono disgiunte delicate sfumature psicologiche, alza una lode ed una preghiera perché Lei che già gli fu grande consolatrice

quandu, senza folìa, spinnatu accedhu

orfanu, jeu, restài di cotraredhu,

lo protegga e guardi piatusa la sua anima preservandola dal peccato. Accanto all'idea del Divino, nel suo vasto mondo poetico, Alvaro un posto di assoluto rilievo lo riserba alla madre, creatura tanto semplice quanto dolce e premurosa, che torna alla mente del Poeta al quale, nonostante gli eventi e l'impetuoso fluire del tempo, resta attaccata da un ideale ma affettivamente resistente cordone ombelicale che il volgere degli anni e la raggiunta maturità non riescono ad offuscare e ad affievolire.

Alla madre dedica versi che, grazie al loro melodioso fluire ed alla spontaneità e profondità dei sentimenti che li sostanzia, sotto l'aspetto poetico, sono dei rari gioielli lirici.

Alvaro aveva quasi due anni quando la madre rimase vittima del terremoto che il 28 dicembre del 1908 rase al suolo la città di Reggio.

Attraverso il minuzioso racconto del padre (cfr. Mamma mia, ti ringrazziu!... ) il Poeta più volte torna su quel tragico evento. E lo fa coinvolgendo interiormente il lettore mediante l'esatto uso dell'endecasillabo e ricorrendo alla lingua calabra che adopera con tale proprietà e sicurezza da renderla inconfondibilmente espressiva e musicalmente melodiosa.

La lingua di Alvaro è quella che fino a qualche decennio addietro veniva usata dai contadini e dai pastori, dalle massaie e dagli artigiani. E', dunque, la classica parlata del popolo, ricca di toni e di sfumature, che Alvaro usa sapientemente ed abilmente plasma fino al punto di conferire al suo verso forme espressive sonore ed immediatezza lirica di rara bellezza ed efficacia.

Ed allora è facile imbattersi in versi scultorei nella loro incisività poetica e quanto mai interessanti sotto l'aspetto glottologico come

e ‘u cori ntra na morza ndi stringìa

nel quale già quel morza, usato in modo quanto mai opportuno ed appropriato, anticipa e completa l'idea della stretta poi espressa dalla forma verbale stringìa.

La mamma popola spesso i sogni del Poeta e lui alla defunta genitrice chiede aiuto e conforto nei momenti di difficoltà:

Oh quantu voti, chi stava ajuttandu,

 

ti cercài aiuta, l’arma amarijata,
vicina ti sentìa e ncucchia a mmia,
speci mbattendu ‘a vita cumpricata,

 

e avanti a ll’occhi, jeu, no’ ti vidìa!...

Ed anche se ormai avanti negli anni, il Poeta ha sempre bisogno di una carezza materna, di quella carezza che non poté ricevere in età infantile e giovanile:

Guàrdami, o mamma, quantu su’ mbecchiatu! 

Oh comu na carìzza toi, vorrìa,

mo’ chi mi vìju anzianu e consumatu;

mo’ chi la vita ‘a sentu cchiù pisanti,

o quandu sugnu, e tu lu sai, malatu,

o mamma duci, chi stai ammenzu ê sant!

Alvaro nei suoi versi è sempre riconoscente alla defunta madre per avergli dato ben due volte la vita.

La prima con la nascita; la seconda allorché avvertiti i primi sussulti del terremoto, quella fatidica mattina del 28 dicembre del 1908, provvide ad avvolgerlo in una rustica coperta - na carpita - e, attraverso una finestra, a farlo cadere nel sottostante giardino dove il Poeta verrà trovato dodici ore dopo.

La madre, con questo estremo gesto d’amore, prima di essere travolta sotto le macerie della casa, dava al suo Ettore n’atta vota ‘a vita.

L’amore per la mamma, secondo una sua stessa confessione, ha determinato in Alvaro il nascere di interessi poetici che, germinati sin dagli anni della prima gioventù si sono sempre più affinati e sono sempre più cresciuti fino a diventare l’elemento predominante della sua esistenza.

Poetare, per Alvaro, è un bisogno dell’anima. Il suo, infatti, è un cantare ed un raccontare insieme.

Un costante cantare le diverse sensazioni interiori ed un raccontare se stesso e gli altri facendo sempre leva su una invidiabile proprietà di linguaggio e su una musicalità espressiva che fanno di ogni poesia un quadro d’ambiente ed un documento storico, ricco di quel fascino evocativo che solo la vera poesia fa scaturire nell’animo del lettore.

Se, comunque, Alvaro non avesse perduto la mamma, in lui, quasi sicuramente, non sarebbe scattata la molla della poesia, spinta interiore che lo stesso Poeta attribuisce alle sofferenze sopportate nella età infantile e determinate principalmente dalla mancanza dell’attenta e premurosa guida materna:

Jeu di cotraru, mi provài a scrivìri

(criju ca fu pâ grandi amurusanza

chi î mâma mi mancava) e descrivìri

tutt’î patenzi pe’ dha so’ mancanza.

Niccolò Tommaseo sostiene che se Dante non avesse subito l'umiliazione dell'esilio "sarebbe stato men grande". Ciò perché è nel dolore e nella sofferenza che si forgiano gli spiriti eletti e gli animi dei grandi.

Per Alvaro, come s'è visto, è l'assenza della mamma - e tutto ciò che la sua mancanza ha determinato in sofferenze e privazioni - a determinare nel suo animo una apertura al mondo della poesia e dell'arte.

E lo ha fatto da autodidatta, raggiungendo vette esaltanti sia in campo poetico che, (e questo è un aspetto assai meno conosciuto), in quello musicale, avendo composto diversi delicatissimi brani che per la raffinatezza tematica possono essere accostati alla musica dei grandi romantici dell' Ottocento.

In poesia, Alvaro, guarda con occhio di premuroso figlio anche la Calabria:

Pe’ mmnia si’ ‘a Mamma, tu si’ dha riggina,

chi suffri quandu puru la natura,

ti sbatti, ti arrivota, ti rovina,

o quandu ‘a genti î tìa no' si ndi cura,

 

aggiungendo subito con filiale amore

 

Majeu ti benedìciu cu cchiù arduri

di figghiu e vogghiu û senti stu me’ amuri!

Anche se da oltre mezzo secolo il Poeta vive a Roma non v'è dubbio che idealmente egli si senta legato a filo doppio con la terra che gli ha dato i natali. Sicché alla Calabria ed a Galatro ha dedicato componimenti in cui la vocazione naturale al canto sgorga spontanea da ogni verso così come da ogni verso promanano sentimenti affettivi e sfumature psicologiche che difficilmente sfuggono, anche al più superficiale dei lettori, per la loro efficacia espressiva e per il costante affiato lirico che li caratterizza.

Sul filo del ricordo c’è, poi, un continuo nostalgico ritorno a Galatro, paese dei genitori e centro nel quale il Poeta ha trascorso gli anni spensierati dell’infanzia e della prima gioventù.

Alvaro ambienta a Galatro la quasi totalità delle sue poesie sia che esse si riferiscano ai suoi innocenti giuochi, sia che, invece, traggano ispirazione da tipiche figure paesane, da leggende locali, da funzioni religiose.

Ed allora per Alvaro vale la massima latina secondo la quale poetari est meminisse.

Sicché a distanza di decenni, sul grande schermo della memoria, nitide gli ritornano le immagini di incontri, di persone, di episodi ed il tutto, per quel miracolo dell’arte del quale Alvaro ben conosce gli arcani misteri ed i segreti meandri, diventa melodiosa poesia.

E’ cosi che, a distanza di oltre settant'anni, ricostruisce in versi l'episodio che in una tiepida sera dì maggio lo vide protagonista nel rione Montebello allorché una giovanissima donna, maliziosamente, abbozzando un sorriso, a lui che spensierato ed allegro le passava sotto il balcone, lanciò una rosa.

A distanza di tanti anni, facendo appropriato uso del nostro armonioso dialetto, di quell’episodio Alvaro ci offre un quadretto di vita paesana che è anche un affresco di costume.

Per il Poeta che nella forza della semplicità e della spontaneità del linguaggio trova un costante fluidissimo afflato lirico, questo componimento è uno dei tanti, delicatissimi, poetici “ritorni” ai luoghi dell’infanzia e della prima gioventù.

In altra occasione, rivedendo a distanza di decenni la pubblica fontana in pietra, opera di artigiani locali, presso la quale da bambino andava a dissetarsi e ad abbandonarsi, spesso, anche a scherzi ed a giuochi con altri coetanei, il Poeta rivive momenti di grande nostalgia mista a quel senso di gioia che intimamente si avverte allorché si torna sui luoghi cari dell'infanzia.

La visione dell’antica fontana consente al Poeta di ricordare i tempi in cui giovinetto si estasiava a vedere le belle ragazze attardarsi ad attingere acqua o a sciacquare i panni.

Ma i tempi sono cambiati ed il progresso, consentendo a tutti i cittadini di avere acqua in casa, ha fatto sì che la fontana, una volta luogo di incontri e sempre popolata di gente in attesa di riempire i diversi recipienti di coccio, oggi sia abbandonata, quasi che di essa si vergognino tutti:

No’ cchiù  gozzi, no’ cortari

vénnu m’ ìnchinu ‘i cotrari.

Ma jeu vegnu rnu mi sazziu

di chiss ‘acqua e t ‘arringràzziu!

La tematica di Alvaro - coi suoi innumerevoli e continui riferimenti all’antico costume di vita dei galatresi (e dei calabresi) - meriterebbe un più approfondito studio sia sotto l’aspetto antropologico che sotto l'aspetto filologico e poetico.

In sede di presentazione di questa silloge, però, anche se per fugaci accenni, è necessario ricordare che nella tematica familiare a buon diritto il Poeta ha inserito anche la nutrita schiera di nipoti e di pronipoti ai quali riserva il compito di cantargli una ninna-nanna che è anche un incitamento al superamento di quei passeggeri problemi che agitano i sonni e tolgono la tranquillità.

 

Addormèntati e no ‘penzari a nnenti.

‘A ninna t’â facìmu, nui, niputi,

chi stcâmu, anita, tutti ccà prisenti,

ntornu a Iu Iettu toi bell’ e cogghiuti!

O nannu, dormi, ca nui t’annacamu,

e quandu è chi ncarròcchi, ndi ndi jamu!...

 

Un'iniezione di fiducia e di incoraggiamento Alvaro se la dà anche con la delicatissima A mmia stessu in cui quel lapidario invito

 

Vòtati arretu. Ndi passasti tanti!

 

e poi

 

n ‘â pô abbasciari, moni, la bandera!

Si strunca ‘a cerza, no’ si pega mai,

 

sono versi che, in forma altamente poetica e grazie a quella misteriosa potenza persuasiva che da essi promana, meritano di essere ricordati non solo per la loro ricchezza di suggestioni ma per l’effetto psicologico che producono.

Non v'è dubbio che siamo di fronte ad alta poesia. A quella poesia che spontanea e fluente, come fresca acqua di sorgente, sgorga dal cuore per trasformarsi in quel lirismo che ha la capacità di affascinare e di convertire gruppi di versi in capolavori difficilmente dimenticabili.

* * *

Cosi come il paziente ed attento lettore avrà modo di constatare, Cu su' jeu è un vero e proprio diario dell’anima e racchiude i temi esistenziali, prima ancora che poetici, di Ettore Alvaro. Proprio per questo si può ben dire, dunque, che quest’opera - più di ogni altra della ricca bibliografia alvariana - presenta la vera fisionomia del Poeta e compendia in modo completo il vero mondo interiore di un autore che tanto ha dato alla poesia meridionale e che molto ha ancora da dare alla cultura calabrese.

E’ certo, comunque, che Cu su ‘jeu se da una parte conferma che Ettore Alvaro nella letteratura vernacola calabrese è il cantore delle piccole cose (e, quindi, per molti aspetti, assai vicino al Pascoli di Myricae ed al Pascoli che canta la morte del padre e che piange la tragica assenza del genitore da La cavalla storna a X agosto - non è azzardato accostare anche la produzione poetica di cui Alvaro rimpiange la madre ricostruendo la sua tragica fine) dall’altra, nella sonora semplicità del verso e nella perfezione formale e stilistica, lo consacra delicato interprete dei più nobili sentimenti umani.

E, in un periodo in cui è quasi una moda dimostrarsi completamente insensibile ai buoni sentimenti, l’attenta lettura dei versi di questa silloge costituisce una salutare boccata d’ossigeno per quanti, invece, credono nei valori umani ed in quei sentimenti che devono essere quotidiano alimento di vita.

Proprio per questo la meditata lettura dei versi di Alvaro per me - ancora una volta e come sempre - ha rappresentato un salutare tuffo in un’oasi di sana spiritualità e di profondi e radicati sentimenti.

* * *

 

GALATRO ed i suoi POETI: : «"CU SU' JEU". Presentazione della silloge di Ettore Alvaro», Umberto Di Stilo,  Galatro, Natale 1991
 "http://digilander.libero.it/galatrorc/"

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