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Rino Cammilleri
Naturalmente le
analisi si sono sprecate e ogni commentatore ha visto nella vittoria di Bush
quel che ha voluto vedere: chi ha messo l’accento sulle tasse, chi sulla
guerra in Iraq, chi sulla Borsa e chi sul petrolio. Ma pochi sono andati a
guardare nel vero tema all’ordine del giorno in questo inizio di millennio:
la religione.
E’ infatti così enorme da passare, paradossalmente, inosservato; eppure, in
questi ultimi anni non si è fatto altro che parlarne. Islam, radici
cristiane, concezione della famiglia, bioetica, relativismo. Anche la
polemica su Buttiglione commissario europeo è stata “religiosa”. C’è una
battaglia di civiltà in corso, ma quelli che parlano a nome del popolo
sembrano non essersene accorti.
Se n’è accorto, invece, proprio il popolo, a cominciare da quello titolare
della più antica e gloriosa democrazia. Sì, perché le ultime elezioni
presidenziali americane sono state un autentico plebiscito popolare a favore
di Bush, il quale ha incassato il più alto consenso mai avuto da un
presidente americano. Nemmeno il mitico Kennedy ne ha avuto tanto.
E’ stata, questa, la vittoria della gente comune, di quel famoso americano
medio che di solito a votare non ci va. Eppure, alla chiusura dei seggi
c’erano ancora file interminabili di gente che voleva votare. Che voleva
votare Bush. Mai vista una cosa simile.
L’America cosiddetta profonda, quella demonizzata nei romanzi di Stephen
King, quella da cui, stando ai telefilm, tutti vorrebbero scappare per
andare a vivere a New York o a Los Angeles, ha fatto una cosa che non aveva
mai fatto prima: ha preso il pick-up scassato e si è fatta miglia di strada
per andare a votare. Per Bush. Il celebre politologo Michael Novak,
direttore degli Studi di scienze sociali all’American Enterprise Institute,
intervistato da Riccardo Cascioli di «Avvenire» ha indicato chiaramente
quale America ha perso con Kerry: quella dei ricchi.
Con buona pace dei nostri (italiani ed europei) osservatori ed esperti di
sinistra. Già, perché oltre ai soliti finanziamenti al partito di Kerry, i
vari Soros e Turner sono scesi in campo con una cifra che va dai sessanta
agli ottanta miliardi dollari per battere Bush. Quest’ultimo è stato
definito stupido e ignorante da quasi tutta Hollywood, da tutte le rockstar,
perfino dai grandi quotidiani (altra rarità: poche volte era successo in
precedenza).
L’élite colta e di spettacolo era schierata con Kerry. E, a sentire Novak,
lo erano anche i miliardari in dollari, quelli che secondo una certa vulgata
dovrebbero tenere per la destra. Invece, no (e ne abbiamo anche qui in
Italia, esempi di ricconi sinistroidi).
Sì, perché essi «si concepiscono come il centro dell’universo»; per questo
«sono fortemente relativisti». Insomma, non sopportano le limitazioni
morali.
L’America, si dice, è spaccata in due? Macchè: le élites antipopolari
costituiscono al massimo un dieci per cento, sono gli editorialisti, gli
anchormen, i megaprofessionisti, gli artisti strapagati. La riprova di
quanto siano rappresentativi di nulla la si è avuta nei referendum popolari
che, in undici stati, hanno bocciato a stragrandissima maggioranza le
cosiddette nozze gay.
Sostiene Novak che il risultato sarebbe stato lo stesso se si fosse tenuto
analogo referendum in tutti gli altri States, e gli crediamo. Infatti, per
esempio, l’aborto negli Usa è stato introdotto da un tribunale, non da un
referendum come da noi.
Se il popolo americano venisse chiamato a pronunciarsi su questo tema,
l’esito sarebbe senza dubbio diverso. Gli americani, popolo religioso, si
sono resi conto che c’erano in gioco le fondamenta stesse della civiltà
cristiana e occidentale: questa campagna elettorale è stata
caratterizzata dalle grandi questioni etiche, come la famiglia tradizionale,
la ricerca sull’embrione, il patriottismo.
E la gente comune si è ribellata alle sue élites, dicendo chiaro e forte
come la pensa, nell’unico modo che le è dato per esprimersi: il voto.
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