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Rino Cammilleri
Sul settimanale
«Tempi» del 21 ottobre 2004 è apparsa un’intervista, a cura di Caterina Giojelli, a due matrimonialiste milanesi, Capello e Salvetti.
Si fa il punto sulla situazione riguardo alle separazioni coniugali.
Cominciamo con i suicidi riconducibili ad esse: 6 nel ’96, 7 nel ’97, 10 nel
’98, 20 nel 2000, 30 l’anno scorso… Chi si suicida di più sono gli uomini
(75% del totale). E sono uomini al 75% i responsabili di omicidi legati a
rottura del vincolo. 19 morti nel biennio 1996/97, 31 tra il 1998/99, 60 tra
il 2000/2001 e 108 tra il 2002/2003. Nell’ultimo decennio rileviamo 691
fatti di sangue e 976 decessi, ripartiti sul territorio italiano con 239
episodi al nord, 261 al centro e 191 al sud.
Le rotture costituiscono quasi 100mila casi all’anno: ogni 1000 coppie ci
sono 5,2 separazioni e 3 divorzi nel nord “secolarizzato” contro i 2,8 e 1,2
al sud. Nel 67,9% dei casi è la moglie (69,9% se è occupata, 66% se
casalinga) a chiedere la separazione contro il 32,1% di richieste a opera
del marito.
Il 90,9% delle volte i figli vengono affidati alla madre. Lo strapotere
delle madri ha conseguenze devastanti: la deresponsabilizzazione del padre,
la sua acriticità nei confronti di un figlio che se maggiorenne decide (e
accade spesso) di tornare da lui. Il papà rinuncia al ruolo di educatore e
il figlio diventa una scheggia impazzita. Conseguenza: riduzione della
cultura della paternità e aumento esponenziale del matriarcato.
Dice la Salvetti: «Nello sviluppo di una civiltà la legge diventa costume
con la generazione successiva, è un po’ quello che è accaduto con la legge
sul divorzio. Al senso comune nel 1970 ripugnava la rottura del vincolo per
cause non naturali (vedovanza); oggi nella mentalità corrente “l’amore è
eterno finchè dura”. Le motivazioni più diffuse sono certamente la
stanchezza affettiva, di solito prodromica o parallela ad una relazione
extraconiugale, che denota un impoverimento del concetto di fedeltà alla
parola data, di cui tutti oggi siamo testimoni nei più disparati settori ed
a tutti i livelli di rapporto sociale. Una costante sono poi i disastrosi
rapporti tra il nucleo familiare e le rispettive famiglie d’origine». Un
motivo molto diffuso è infine la delusione dopo la sbornia, quando inizia la
routine, la noia, la Tv, il silenzio, il distacco…
Quando si litiga davanti ai giudici si avranno non di rado anni di procedura
con decine di udienze più o meno cruente e devastanti per l’anima, la psiche
ed il portafoglio. Si verifica un vero e proprio incentivo all’impoverimento
che deriva dalla necessità di resistere alle richieste economiche della
controparte: c’è convenienza a risultare più poveri, e questo stimola una
caduta verso la povertà.
Prima, a rompere la convivenza erano i ricchi, ora invece lo fanno con
maggior frequenza le classi medie, che così firmano la loro condanna,
accelerando la loro mobilità sociale discendente. La duplicazione di un
nucleo familiare determina la nascita di due nuclei impoveriti. Poi ci sono
i costi che derivano dalla necessità di una compensazione affettiva verso i
figli. Il costo degli affitti raddoppia, perché raddoppia la richiesta di
case. Raddoppiano le utenze, i costi di trasporto. Un separato/a spenderà
molto di più anche in generi che prima non consumava, quali i cibi precotti,
la tintoria, ecc..
Poi ci sono i problemi che si riversano sui nonni: una volta non più
autosufficienti, esaurito il compito di papà/mamma sostitutivi, finiranno in
qualche cronicario. Infine, i disagi psichici dei figli: la prossima
generazione non avrà più come modello di riferimento la famiglia monogamica.
Il fatto è che ci siamo secolarizzati: il corpo sociale ha abbandonato la
dimensione della responsabilità.
Dice la Salvetti che se io ammetto ad esempio di poter avere una relazione
extraconiugale, ovviamente da ciò deriverà una mia riduzione del senso di
responsabilità verso la crescita coerente dei miei figli, in quanto ho già
spostato il centro del mio interesse sul mio comodo affettivo, togliendolo
alla loro necessità di stabilità.
Cosa si può fare? Risposta: gli operatori del diritto, che sono l’ultima
frontiera prima della rottura, dovrebbero intervenire ai fini di una
mediazione familiare che comporti un ripensamento ed un tentativo di
ricostruzione sulla base di nuovi ideali che, però, «i nostri clienti
neppure conoscono, che non provano perché trascinati dalla cultura
massmediatica».
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