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Rino Cammilleri
L’agenzia «Corrispondenza romana» mi ricorda che Ronald Reagan, presidente
americano dal 1981 al 1989, non fu solo l’artefice del crollo dell’Urss e
del rilancio economico degli Usa, ma anche il primo politico in Occidente a
mettere al centro della sua agenda la lotta alla droga. E già nel 1970, ai
tempi della sua ascesa a governatore della California.
In quegli anni Nixon si era impegnato nel tentativo di superare l’approccio
esclusivamente repressivo al problema della tossicodipendenza, ma si era
impantanato nella opinabile distinzione tra drogato e spacciatore,
distinzione che vede il primo solo come vittima innocente. Infatti, con
l’avvento della stagione «hippy», si passò da meno dell’1% di drogati
occasionali nel 1962 al 70% del 1979, quando i tre quarti dei giovani
americani tra i diciotto e i venticinque anni finirono coinvolti in uso di
acidi, hashish e altro.
Reagan invece comprese che bisognava affrontare le radici ideologiche del
problema e si adoperò per segare il ramo su cui stava seduta la cosiddetta
«controcultura». Il suo impegno si chiamò «Guerra alla droga» e diede
dignità istituzionale al movimento spontaneo di migliaia di gruppi di
genitori divenuti poi Anti-drug Parents' Movement («Movimento dei genitori
contro la droga»).
Nel 1984 varò il programma National Family Patnership, tramite programmi di
educazione nelle scuole e nei posti di lavoro realizzati capillarmente in
tutta la nazione. Reagan firmò infine la legge del 1986, Anti-Drug Abuse Act.
In pochi anni riuscì per la prima volta ad invertire la tendenza, riducendo
di oltre il 70%, e in maniera stabile, il numero dei consumatori americani
di droga. Con ricadute altrettanto positive in materia di crimini e decessi.
Anche per questo l’ex cowboy cinematografico ha dato il suo nome a un’epoca.
Forse, davvero, per realizzare quel ha fatto lui ci voleva non un politico
di carriera ma un «uomo medio», di quelli cresciuti nel mito, tipicamente
americano, di John Wayne.
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