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di Rino Cammilleri
Riassunto: a suo tempo Vittorio Sgarbi, in una puntata della rubrica che
tiene su «Il Giornale», raccontò di aver visto nell’Archivio di Stato a
Milano un messaggio del 1820 di Silvio Pellico a Maroncelli. Scritto col
sangue.
Si chiede conto della chiamata in correità davanti ai giudici e si impone
una ritrattazione. Il biglietto non arrivò perché fu sequestrato. Sgarbi si
domandava: «E’ Maroncelli che ha mentito o Pellico che ha paura?». Risposta:
è molto probabile che il poeta sia stato davvero incastrato. Il ventenne
Pellico venne da Saluzzo a Milano a cercar fortuna negli ambienti “giusti”.
Che erano, ieri come oggi, quelli “di sinistra”.
Nel salotto del conte “rosso” Luigi Porro trovò l’aiuto e il trampolino per
il successo. Ma il “giro” che lo aveva lanciato si presentò all’incasso
tramite Pietro Maroncelli, che lo cooptò nella Carboneria. Maroncelli,
mediocre musicista forlivese, fu preso dalla polizia e, abilmente
interrogato, vuotò il sacco coinvolgendo pesantemente Pellico. Arrestato in
quel 1820, Pellico fu condannato a morte per alto tradimento, sentenza
subito commutata in vent’anni di Spielberg. Dopo soli otto anni arrivarono
la grazia e la libertà.
In galera compose quel
Le mie prigioni in cui espose tutta la sua resipiscenza, il suo
sincero ritorno alla religione cattolica
(aveva due sorelle suore e un fratello, Francesco, gesuita),
nonché l’ammissione che gli
austriaci non erano affatto quei mostri che la propaganda nazionalista
descriveva. Il libro
divenne subito un bestseller internazionale. Ma gli ambienti di cui sopra
riuscirono a capovolgere quel pentimento e a presentarlo come il ritratto
dell’italiano che, pur oppresso dal giogo straniero, rimane sempre superiore
ai suoi aguzzini.
Forse davvero «danneggiò l’Austria più di una battaglia perduta» (frase
messa artatamente in bocca a Metternich) ma di più danneggiò l’autore, sul
quale cadde l’ostracismo totale. Ridotto alla fame, Pellico fu accolto dalla
marchesa Giulia Colbert Falletti di Barolo, «angelo della carità» in Torino
(e oggi candidata agli altari), che lo prese come bibliotecario. Delle sue
opere successive, prive ormai dell’appoggio degli “amici”, nessuno si
accorse. Tranne I doveri degli uomini, trattatello di morale
cattolica che, col passaparola, ebbe enorme diffusione nel popolo basso.
Morì dimenticato nel 1854. Così aveva scritto nel 1835 al celebre incisore
luterano K. F. Voight (che si era fatto cattolico dopo aver letto Le mie
prigioni): «Il mio desiderio, quando pubblicai quelle memorie, non fu
altro che rendere testimonianza all’eccellenza della cattolica religione
(…). Gli uomini accesi di passioni non cristiane vollero considerare quel
libro come diretto a intenzioni artifiziose, e non mi capirono né quando
m’ingiuriarono né quando mi lodarono ». Oggi, nella scuola dell’obbligo,
delle Mie prigioni restano solo due brani, quello della «rosa di
Maroncelli» e quello del «carceriere Schiller». Proprio quelli che la
propaganda dell’epoca esaltò propagandisticamente (magari per distogliere
l’attenzione dal resto). |
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