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di Rino Cammilleri
Diceva Petrolini che siamo dei pacchi che l’ostetrico consegna al becchino.
Nel tragitto percorso dai pacchi suddetti la mentalità corrente ha inserito
un obbligo cogente che aggrava la situazione: la «vita» deve essere di
«qualità», sennò non la vogliamo. La minaccia dell’anticipata consegna al
necroforo del pacco di qualità inferiore a quella pattuita non è altro che
la forma estrema di quell’infantilismo che ha cominciato a contagiare il
pianeta nel Sessantotto.
Ricorda infatti il ricatto sentimentale del bambino capriccioso di fronte al
papà: se non fai quello che voglio, non mangio. Sottinteso: mi faccio del
male per farti soffrire, giacchè so che a me tieni.
Forse non a caso la pratica degli scioperi della fame è una forma di
protesta cominciata proprio col Sessantotto. Il problema è di definizioni:
cosa vuol dire «qualità della vita»?
So già che i più credono di saper rispondere a questa domanda, ma la
questione è più sottile. Ai tempi della filosofia scolastica l’arte della
definizione era considerata di somma importanza e necessariamente
propedeutica a ogni ragionamento.
Se non ci si metteva preventivamente d’accordo sulle definizioni si
rischiava il parlare a vanvera, il dialogo fra sordi, l’equivoco. Infatti,
«definire» vuol dire letteralmente «mettere dei confini», «delimitare».
Solo dopo essersi accordati su quel che una cosa è e su quel che non è si
può cominciare a dialogare, dibattere, discutere. Invece, la
fondamentalissima «qualità della vita» rimane ancora nel vago; tutti credono
di sapere in cosa consista ma un’indagine approfondita rivelerebbe una
variegata panoplia di opinioni. Certo, se si tratta di un malato senza
speranza e che magari soffre atrocemente, allora è facile. Ma, a ben
pensarci, un obeso, un povero, uno sfortunato cronico, un brutto, un
antipatico si può dire che abbiano una «qualità della vita» tale da renderli
contenti?
Essere «contenti», oggi, richiede standard e performances sempre più
impegnativi, e sono in aumento quelli che non riescono a tenere il passo.
D’altra parte, è un interrogativo che il pensiero «laico» prima o poi dovrà
seriamente porsi: la vita è «mia»?
Politicamente parlando, esiste ancora una nozione condivisa di «bene
comune»? Il punto è questo, infatti, perché secondo le categorie classiche
io non mi appartengo e se mi chiamo fuori a qualsiasi titolo, dal suicidio
tout court a quello rateizzato della tossicodipendenza, defraudo la società
del mio apporto e qualcuno dovrà remare al mio posto (senza però lasciare il
suo, di remo).
Credo che sia questo il fondamento filosofico-giuridico da cui la Corte
europea per i diritti umani ha tratto la sentenza del 28 aprile scorso, con
la quale ha sancito che il diritto alla vita «non può essere interpretato in
modo tale da conferire un diritto diametralmente opposto». Il caso, lo si
ricorderà, era quello della malata inglese che chiedeva il permesso legale
per il «suicidio assistito».
Si tratta di uno dei tanti «casi limite» che, di volta in volta, vengono
usati come grimaldello per aprire la strada all’eutanasia. Una strada
lastricata di slogan, fin dal primo («l’utero è mio», il grido delle
femministe sessantottarde) e fino all’ultimo, antinomico: «ridare dignità
alla vita tramite la morte».
Ora, è la terza volta che le istituzioni europee bocciano l’eutanasia (1997,
Consiglio d’Europa; 1999, Parlamento europeo), ma l’Olanda l’ha legalizzata
e il Belgio si sta preparando. Qui qualcosa non quadra: com’è che la Ue si
ritrova solertissima quando c’è da condannare «violazioni» sulle dimensioni
dei piselli e il diametro dei fagiolini, e anche (meritoriamente) sulla
eccessiva lunghezza delle cause civili italiane, ma non batte ciglio in
questi casi di ben più grave momento?
A pensar male, qualcuno deve essersi accorto degli spaventosi costi
assistenziali e sanitari di una società in cui la vecchiaia si è allungata
in modo imprevisto, e ha deciso che forse è meglio lasciar correre: sarà la
società stessa a reclamare uno sfoltimento delle sue «unità improduttive». E
il punto filosofico verrà affrontato e risolto, democraticamente, a
maggioranza. Più «laico» di così -è il caso di dirlo- si muore.
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