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di Rino Cammilleri
L’8 settembre u.s. Paolo Mieli ha interrotto la sua lunga vacanza dalla
rubrica quotiana sul Corsera con un commento su Pinochet e le
dittature sudamericane. Dopo i soliti distinguo (d’obbligo in un
intellettuale che cerca di apparire imparziale in ogni caso), ha ricordato
che Pinochet è l’unico esempio di dittatore «di destra» che abbia
volontariamente ceduto il posto alla democrazia, per giunta assicurando una
transizione indolore.
Aggiungo io: come gli antichi dittatori romani, i quali venivano chiamati a
salvare la patria in una situazione di grave pericolo, cessato il quale
tornavano a casa. Mieli lamentava il fatto che, oggi, le democrazie
sudamericane stanno cercando di processare quei generali e colonnelli che a
suo tempo instaurarono dittature: mossa piuttosto sleale perché non rispetta
i patti taciti e, anziché procurare una pacificazione nazionale, rivolta
zolle e tombe rinfocolando odii e rancori.
Ora, poiché quel passato non lo si vuole far passare, tanto vale ricordare
come andò. Nulla di meglio, per farlo, che leggersi le oltre seicento pagine
di Mario Spataro (Pinochet, le “scomode” verità, Roma 2003) su una
delle principali «bestie nere» dei marxisti, ex e post, e dei radical-chic,
tanto più disinformati quanto più nutriti di soli slogan.
Il presidente comunista Salvador Allende nei tre anni del suo governo portò
l’inflazione cilena a cifre con tre zeri, code lunghissime nei negozi di
alimentari, mancanza di generi di prima necessità, fuga dei cervelli,
nazionalizzazioni di terre e industrie che portarono l’economia al collasso.
Più, la crescita esponenziale di bande paramilitari marxiste che per numeri
e armamenti rivaleggiavano con l’esercito. C’è una lunga lista di vittime da
terrorismo, militari, poliziotti e civili, dopo l’avvento di Pinochet. E
altrettanti desaparecidos che risultarono ben vivi vent’anni dopo
(erano semplicemente «spariti» oltre cortina, nei campi di addestramento,
per ricomparire in Angola con la divisa cubana).
Nell’agosto 1973, a pochi giorni dal golpe di Pinochet, fu proprio il
parlamento a denunciare il ricorso sistematico ad arresti arbitrari e
torture, a mettere in minoranza Allende e a invocare l’intervento dei
militari. Intervento che, tra l’altro, era stato richiesto dalle massaie
nelle famose «marce delle pentole» (vuote), che terminavano davanti alle
caserme con lancio di chicchi di mais (i cileni dicono «gallina» per dire
«vigliacco»). Altrettanto famosi erano, al tempo, gli scioperi dei
camionisti trasportatori del rame, che la notte facevano la guardia armata
ai loro automezzi recitando il rosario. L’icona di Allende è sempre stata
sbandierata come la prima (e unica) volta di un partito comunista andato al
potere in modo legale.
Infatti, ci andò con i voti dei democristiani cileni (cosa che cagionò una
lunghissima analisi su Rinascita da parte di Berlinguer, allora
segretario del nostro Pci, intitolata «La lezione cilena»: a giudizio di
molti, inizio del tentativo di «compromesso storico» in Italia, paese per
composizione sociale, mentalità e cultura molto simile al Cile).
L’icona -negativa- di Pinochet è, all’opposto, quella di un dittatore «di
destra», per giunta militare e sostenuto dagli odiati Usa, che ha consentito
al suo popolo di fare un paragone diretto con la precedente gestione
marxista e che ha governato con la piena soddisfazione di detto popolo. Un
dittatore, ripetiamo, che, compiuto il risanamento, ha volontariamente
riconsegnato il potere ai partiti democratici, gli stessi che lo avevano
chiamato. Ma quella che Spataro chiama «storiografia da supermercato» è
manichea: per essa, come diceva Gramsci, «tutto è politica». Cinema,
romanzi, saggi, perfino la satira e le canzoni, devono avere un solo scopo:
la vittoria della «causa».
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