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Lavoro e
nient’altro |
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di Rino Cammilleri Sul Corsera del 24 luglio u.s. c’era un’intervista con foto. A una famiglia della periferia milanese. Coppia giovane, sui trent’anni, una figlia di un anno e mezzo. Lei è laureata, lui quasi. In due, con tutta evidenza sotto-occupati, portano a casa milleottocento euro al mese. Tre milioni e mezzo circa di vecchie lire. Hanno comprato l’appartamento in cui vivono, ottanta metri quadri. Pagano il mutuo e le spese condominiali. L’articolo è una dettagliata analisi delle loro spese fisse. Che sono pari a quello che guadagnano. Avranno seri problemi a breve con la retta dell’asilo-nido della bimba, visto che non sanno a chi lasciarla. Lei, per non perdere parte dello stipendio, è rientrata al lavoro poco tempo dopo la nascita della figlia. Con qualche lezione serale di italiano (forse a immigrati) tamponano gli imprevisti: il dentista, per esempio. Cambiare la vecchia utilitaria che è agli sgoccioli? Non se ne parla. Cinema, pizza, vacanze: niente. Lavoro e basta. Un altro figlio? Follia pura. Insomma, l’identikit-tipo della famiglia italiana che vive del proprio lavoro. E vive solo per lavorare. Matrimonio tardivo, un figlio unico. Che bisogno c’è di dar la colpa all’edonismo? Sono i prezzi l’anticoncezionale per eccellenza, e una vita sociale sempre più calibrata sulle «esigenze della produzione» (che poi «produzione» non è più da un pezzo, bensì «terziario»; alla «produzione» pensano i cinesi). Lo Stato e le politiche familiari? Come diceva Totò: ma mi faccia il piacere!… Ricordo che quello descritto era suppergiù il tipo di esistenza che conduceva una famiglia operaia monoreddito negli anni Cinquanta. La quale, però, si permetteva almeno tre figli che riusciva anche a far studiare. Lo ricordo bene perché la mia, di famiglia, era così. Questo è, dunque, il meraviglioso progresso della Quinta Potenza Industriale in mezzo secolo? Complimenti. E complimenti anche per quei sette milioni di poveri («sotto la soglia della povertà», recita la voce apposita nelle statistiche) che a tutt’oggi ci vivono. Lavoro, dunque (se lo trovi), e nient’altro. A parte, s’intende, i molti canali televisivi a disposizione (negli anni Cinquanta ce n’era solo uno). Nei quali hai tutti i giorni sotto il naso i lustrini di quelli che ben altra vita conducono. |
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Antidoti: «Lavoro e nient’altro», di Rino Cammilleri, 19 Agosto 2003 |