Agnelli Giovanni |
Il lascito-sfida di
un cosmopolita
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di di Ernesto Galli della Loggia È solo per effetto della lontananza del tempo, è solo per effetto dell’aura ormai mitica dei grandi eventi che allora si verificarono - la guerra, la ricostruzione, l’avvento di una società democratica -, è solo per questo che l’Italia di Giovanni Agnelli ci appare tanto più grande di quella odierna, tanto più affollata di personalità eminenti come la sua, di idee grandi, di passioni forti e vere? No, non credo. Penso piuttosto che questa sensazione avvertita ieri mattina da molti contenga una verità autentica. È come se la nostra collettività, crescendo in reddito e in benessere - come sicuramente è cresciuta negli ultimi decenni -, si fosse però anche rimpicciolita e si sentisse tale, sentisse oggi di aver perduto la statura e lo spessore di un tempo, anche una vivacità e varietà che molti di noi ricordano sue. Pure di questa consapevolezza è fatto, se non mi inganno, il sentimento di lutto per la morte del presidente della Fiat. Statura, spessore, vivacità di un tempo dipendevano forse non poco dal fatto che quella era, per così dire, un’Italia fatta in casa, che si faceva un punto d’onore nell’essere al passo con i tempi ma era attaccata alle sue radici: un’Italia le cui classi dirigenti, con la loro formazione e le loro prospettive, si iscrivevano entro una gamma di peculiarità nazionali, entro una cifra che voleva essere moderna, ma non aveva rinunciato anche ad essere tutta nostra. Peculiarità e cifra nostre che in qualche modo ancora credevano - potevano credere - di stare alla pari con il mondo, con quanto di più vivo si pensava e si faceva fuori dai nostri confini. L’Italia del ’900 fu quest’ambizione, questa illusione. Lo fu l’Italia del secondo dopoguerra. I suoi partiti, i suoi governanti, i suoi industriali, i suoi intellettuali, pur così radicati nella cultura e nella storia di casa, nutriti di tale cultura e di tale storia, riuscirono però anche ad avere un ruolo e un significato non limitati all’ambito del Paese. Furono capaci e interessati comunque a guardare oltre quei confini, ad oltrepassarli, convinti che in ciò il loro essere italiani poteva significare anziché uno svantaggio un guadagno, un arricchimento di prospettive. La Fiat fu per antonomasia questa peculiarità nazionale in grado di stare in rapporto con il mondo. Così come lo fu il suo sogno grande-industriale, che rappresentò per tanta parte il sogno di tutto il Paese. Essa fu grande anche perché incarnò tanti aspetti d’identità italiana che però seppe sintonizzare con ciò che accadeva a New York o a Detroit. Al pari di De Gasperi, di Togliatti, di Mattei, di Fellini, di Strehler, di Gadda, di tanti altri che fecero la medesima cosa nei loro diversi ambiti, e che proprio perciò, credo, oggi ci appaiono grandi nel ricordo. Il senatore Agnelli rispecchiò in maniera perfetta questa confluenza. Come ha ricordato il presidente Ciampi, il suo cosmopolitismo poggiò sempre su una base fortemente italiana, su una conoscenza profonda delle mille pieghe del Paese, su una partecipazione personale a tante sue vicende. Per una singolare coincidenza egli scompare mentre sta probabilmente scomparendo, o è già scomparso, proprio questo fondo nazionale della nostra ambizione alla modernità. Ormai le partite, tutte le partite, hanno smesso da tempo di essere giocate in casa, bensì sono decise fuori. Delle cose che contano, le maggiori, se non tutte, dipendono ormai da attori che non siamo più noi, e dunque sono ignari del nostro passato e della nostra identità. Giovanni Agnelli scompare nel momento in cui, sfocandosi progressivamente un’idea italiana di modernità, siamo di fronte alla sfida di immaginarne, semmai è possibile, un’altra. Con quella che fu dei suoi tempi egli poté e seppe essere realmente cosmopolita. Starà a noi riuscire a fare qualcosa di analogo, se non vorremo rassegnarci, viceversa, a a parlare semplicemente inglese: per crederci moderni, almeno come individui, non potendo esserlo come Paese. |
Agnelli Giovanni: «Il lascito-sfida di un cosmopolita. Un'idea italiana di modernità», di Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera 26.01.2003