Agnelli
Giovanni

Le ore prima della morte a Villa Frescot
«La moglie, la figlia e il prete.
Se ne è andato come tutti»

 

Una vita per metà dedicata all’ozio di bellimbusto e  per l’altra metà a far lavorare gli altri…

 
di Renato Farina,



Persino le foglie sulla collina torinese, che si apre sui monti bianchi di neve e azzurri di cielo, sono eleganti, affusolate come dita, un po' sgualcite per far vedere che conoscono la vita. Le auto entrano lucenti e segrete nella fantastica villa Frescot, tra pini ed edera. Rallentano un attimo e dai vetri fumé inconfondibili si scorgono quei volti lunghi, quelle ciglia curate, quella trasandatezza amara di chi se la può permettere. Ma la morte è livida, e non c'è abbronzatura che tenga. Si muore soli. Giovanni Agnelli è morto come un vecchio malato di cancro, senza le sue solite osannate stramberie, e con la fortuna banale ma ormai rara di avere accanto la moglie Marella e la figlia Margherita che gli accarezzavano il volto e hanno pianto. Prima però il prete. Anche se nel suo caso era un cardinale, ma le parole sono le stesse per tutti: «Ego te absolvo. Fatevi coraggio, il vostro caro lo rivedrete faccia a faccia in Paradiso».


Intanto, mentre i grandi della politica e della finanza, cominciavano a esaltarne la figura, e a spiegare che l'Italia ha irreparabilmente perduto un protagonista e non si sa come farà l'economia senza di lui, ecco che il mercato, questa bestia smemorata che l'Avvocato ha accarezzato tutta la vita, ha riso contento, e le azioni della Fiat hanno fatto un balzo in su. Gli esperti spiegano che tutto questo ha delle ragioni tecniche e perfettamente limpide, nient'affatto offensive per il defunto. Ma noi che del ramo borsistico conosciamo solo le fregature, abbiamo l'idea che ci prendano tutti un po' in giro, e che la morte di un ricco sia l'unico fermento che eccita i capitalisti nei tempi di crisi. Povero Avvocato! Adesso che non comanda più, lo useranno come una specie di sacro amuleto.


Diventa il Santo Avvocato patrono del lavoro italiano, lui che ha lavorato più dal suo letto di moribondo che nel resto della sua esistenza. In quel letto, o quando stava estenuato sulla poltrona, ha palesato quella dignità formidabile che non gli avevamo visto nelle sue battute sopravvalutate. Diciamolo: la trovata di chiamare Del Piero-Pinturicchio, Boniek-Bello di notte, fino a quella sul Paese dei fichi d'India, che sarebbe l'Italia, non farebbero passare alla storia nessuno, e neanche il polsino slacciato, salvo che si chiamasse Agnelli ed avesse un potere tremendo che obbligava all'adulazione.


La morte dev'essere stata la cosa meno noiosa della sua vita. C'erano dei giorni che si stufava così tanto che faceva un salto a Parigi, prendeva il Concorde, mangiava a Le Cirque con Kissinger e poi la sera tornava a Torino. Lo stufava tutto, cercava distrazione nel pettegolezzo, svegliava la gente alle cinque e mezzo della mattina, abusando del suo potere di potersi permettere di rovinare l'alba alla gente perché era ricco. Ma ecco la morte non lo ha annoiato. Non la propria. E prima non la morte del nipote prediletto, Giannino, l'erede designato, il figlio di Umberto. Giovanni era stato colpito dal fatto che gli ultimi mesi solitari della sua vita stremata da un raro tumore, li avesse passati leggendo il Vangelo con un sacerdote, don Renzo Savarino.


E poi la fine del figlio maggiore. Nella chiesa di Villar Perosa si vide l'Avvocato angosciato. Non è stato più il tempo della noia da allora. E quando ha saputo che doveva morire lui, nell'autunno scorso, ha cercato di passare la mano con sicurezza e probità, ha sistemato le cose come un buon padre di famiglia. Aveva il cancro e un rimorso dentro, che ha fatto scontare ad Agnelli tutti i lussi e le pigrizie della sua vita per metà dedicata all'ozio di bellinbusto e per l'altra metà a far lavorare gli altri, ad essere un simbolo, un marchio, una faccia scolpita, tutte quelle cose che servono a non rispondere alle domande decisive della vita.


Il cardinal Severino Poletto ha raccontato che un giorno di fine novembre l'Avvocato ha voluto vederlo. Il patriarca della Fiat gli ha spiegato quel che gli stava capitando: moriva. Poletto ha capito. Gli ha chiesto se voleva confessarsi e fare la comunione: Agnelli si è confessato e ha sentito la messa. L'ultima sera l'ha chiamato. Ha chiesto perdono come tutti. Quella domanda decisiva per lui coincideva con un rimorso. Un rimorso che cominciava per E. Quell'Edoardo che si è ucciso buttandosi giù da un ponte due anni fa e che non era mai riuscito a trovare in quell'Avvocato un padre. Neanche dopo morto. E. aveva provato a trasformare in un urlo il suo dolore inesprimibile: uccidersi, e che il mondo sapesse. Invece la famiglia ha messo il bavaglio del silenzio al defunto, e non uno dei mille giornali del gruppo ha usato per rispetto la parola suicidio (Stampa, Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport). Rispetto di che? Di quale mascherata e di quale codice d'onore?


Nessuno sa davvero che cosa sia accaduto dentro quel vecchio che oggi tutto il mondo andrà a onorare, con la Juventus in testa e il popolo dietro. Ma da quel 16 novembre del 2000 l'ha tormentato fino all'ultima ora, anche durante il coma che non è mai un riposo, il ricordo infantile che ha segnato Edoardo. Quella domenica nei primi anni '60 il papà Gianni aveva promesso al suo figlio primogenito di portarlo allo stadio a veder giocare la Juve. Edoardo si vestì, si preparò. Stette lì con le sue precettrici tedesche in attesa: non venne. Il papà si era dimenticato della promessa. Una colpa così lieve in fondo, dinanzi ai destini del mondo. Eppure queste cose graffiano il destino più di un venerdì nero in Borsa. Forse.

Il primo comunicato della famiglia è di una asciuttezza regale. «Giovanni Agnelli è spirato nella sua casa torinese, dopo mesi di malattia. Lo hanno assistito la moglie Marella e la figlia Margherita con i suoi figli. La camera ardente sarà allestita al Lingotto e i funerali si svolgeranno a Villar Perosa in forma strettamente privata». Questo di primo mattino. Ma poi è accaduto qualcosa per cui da morto la Famiglia, la Ditta, la Patria e la Chiesa hanno ritenuto che qualcosa il vecchio Agnelli dovesse a tutti loro. E l'hanno costretto a lavorare da morto. A diventare, per il potere misterioso dei funerali di un patriarca, l'eroe che ricompone l'unità nazionale e rilancia l'economia e persino la fede cattolica. Nel frattempo hanno attrezzato il Lingotto, che da fabbrica si è trasformato in centro commerciale e museo, per ospitarne le spoglie da venerare. Proprio lì, sull'uscio di cristallo della "Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli" c'era scritto: «Chiuso per lutto venerdì, sabato e domenica». Riposi in pace, dopo questa fatica finale di ascoltare le solenni panzane agiografiche di quelli che in fondo lui disprezzava. Lo annoiavano. La prossima volta porterà il figlio Edoardo a vedere la Juventus.

 
 

Agnelli Giovanni: «Le ore prima della morte a Villa Frescot. "La moglie, la figlia e il prete. Se ne è andato come tutti"», di Renato Farina, Libero, Sabato 25 gennaio 2003

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