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di
Magdi Allam
Forse l'imam
della moschea fiorentina di Sorgane, l'algerino Mahamri Rashid, verrà
rilasciato nei prossimi giorni dal Tribunale della libertà. Nell'operazione
ribattezzata enfaticamente «Shahid», Martire, che ha portato al fermo di
altri quattro tunisini sospettati di aspirare a diventare dei kamikaze in
Iraq, non sono stati rinvenuti armi o esplosivi, né è stato appurato un
concreto e specifico piano di azione terroristica. Sarebbe sufficiente
un'interpretazione letterale della norma 270 bis del Codice penale
(Associazione con finalità di terrorismo internazionale) per scagionarli.
Pur restando vero che i cinque hanno chiaramente espresso la volontà di
raggiungere l'Iraq dove farsi esplodere per uccidere il maggior numero
possibile di occidentali. Che hanno subito un indottrinamento all'ideologia
islamica radicale in una moschea italiana e tramite audiovisivi inneggianti
alla Jihad, la guerra santa, reperibili sempre in moschea. Il che ripropone
la questione cruciale della centralità delle moschee e degli imam nel
processo di conversione dei nostri immigrati in crisi di identità alla causa
del «martirio» islamico. E della compatibilità del nostro ordinamento
giuridico con la specificità del terrorismo islamico suicida.
C’è un secondo aspetto di rilievo nell’inchiesta che ha coinvolto le Procure
di Genova e di Firenze. Dal quadro d’insieme emerge la presenza sul nostro
territorio di militanti appartenenti al movimento palestinese Hamas, al Gia
(Gruppo islamico armato) e al Gruppo salafita per la predicazione e il
combattimento attivi in Algeria, ad Ansar al Islam che nasce nel Kurdistan
iracheno. Ebbene, forse non è un caso che mentre l’imam Rashid è sospettato
sin dal 1997 di essere legato al Gia e che i quattro tunisini risultano
essere stati arruolati in Italia da Ansar al Islam, la sigla «Brigata verde»
che ha rivendicato il sequestro dei nostri connazionali in Iraq prende nome
dalla forza d’élite del Gia, e che per il loro rilascio sia stata chiesta la
liberazione dei militanti di Ansar al Islam prigionieri nel Kurdistan.
Proprio lì lo scorso gennaio furono scoperti una settantina di documenti
d’identità italiani appartenenti a nostri immigrati arruolati per fare la
Jihad. Tra loro figurano almeno cinque kamikaze, che risiedevano in
Lombardia, che si sono fatti esplodere in Iraq. Ed è per questo che i fermi
di ieri aggiungono un nuovo tassello all’intreccio fra il terrorismo
islamico in Italia e quello che in Iraq muove le fila del sequestro dei
nostri connazionali.
Il paradosso che devono affrontare le nostre forze di sicurezza è che
mentre, da un lato, vi è la certezza che l’Italia e l’Europa sono
effettivamente una roccaforte del terrorismo islamico, dall’altro si scontra
con un impianto giuridico che tollera che gli imam predichino la guerra
santa e non considera reato l’arruolamento su base volontaria per motivi
ideologici. Questo iper- garantismo è di fatto favorito dal ripetersi delle
scarcerazioni di presunti terroristi islamici. Si tratta di casi
probabilmente fondati e che si spiegano con errori investigativi in un
contesto complicato anche dalla difficoltà di traduzione delle registrazioni
nei vari dialetti arabi. I nostri tribunali e le istituzioni pubbliche
faticano a trovare interpreti competenti e affidabili. Molti di loro sono
costretti a non collaborare perché minacciati di morte.
E’ evidente che bisogna affrontare la radice del problema: la realtà di
molte moschee e dei loro imam che sfuggono al controllo della legge e
predicano valori incompatibili con i nostri principi morali. A partire
dall’esaltazione degli shahid, i martiri islamici in Palestina, Cecenia e
Iraq. Quando le vittime sono «infedeli» ebrei o cristiani.
E’ proprio il rispetto del valore della sacralità della vita il parametro
fondamentale per accertare l’adesione ai nostri valori. Un obiettivo più
facilmente conseguibile quando l’imam è un italiano moderato. Come è il caso
di Sergio Yahya Pallavicini, vicesegretario della Coreis (Comunità religiosa
islamica italiana), che ha appena pubblicato
Islam in Europa.
Riflessioni di un imam italiano (Il Saggiatore). «E’ arrivato il momento di
far conoscere il vero volto dell’Islam moderato - dice Pallavicini, che è
musulmano dalla nascita -, gli imam sono persone religiose che però devono
saper convivere nel mondo circostante. Ciò significa che dobbiamo essere dei
referenti sul piano religioso, non ideologico o militante. Gli imam non
possono essere strumenti di interessi ideologici o di Stati stranieri. Ecco
perché gli imam devono essere italiani. Soltanto così possono garantire
l’integrazione delle virtù spirituali». Insomma, un Islam italiano, retto da
imam italiani che rispettano la legge e predicano valori condivisi dalla
società italiana.
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