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di
Massimo Introvigne
Negli ultimi giorni un convegno all’Istituto Italiano di Cultura di
Bruxelles e un numero speciale del Nouvel Observateur annunciato da
locandine che proclamano «L’islam illuminista esiste!» cercano di lanciare
un nuovo soggetto: «L’islam dei Lumi». Che cos’è questo «islam illuminista»?
Esaminando testi per la verità non del tutto coerenti, sembra si tratti di
una critica delle fonti islamiche simile a quella cui il metodo
storico-critico sottopone da un paio di secoli le fonti cristiane. Questa
critica liquida gli hadith, i detti del Profeta, come in gran parte apocrifi
e costruiti per i bisogni della comunità ben dopo la sua morte, e nel Corano
distingue un nucleo teologico e morale «autentico» da prescrizioni
contraddittorie sulla società, la pace e la guerra che rifletterebbero
semplicemente situazioni contingenti ed esigenze di potere.
Da
questa base gli «illuministi» arrivano a posizioni diverse, che vanno da un
apprezzamento sostanzialmente non religioso per elementi islamici ridotti a
semplici valori culturali fino a un islam ultra-progressista che abbraccia
la separazione all’occidentale fra religione, cultura e politica, e inoltre
abbandona ogni pretesa di universalità dell’islam e quindi ogni
proselitismo.
Questo modo di procedere ricorda da vicino la Haskalah, la versione ebraica
dell’Illuminismo che è alle radici da una parte di quelle «denominazioni»
modernizzatrici ebraiche che controllano oggi la maggioranza delle sinagoghe
americane, sia della ancor più diffusa riduzione secolare dell’ebraismo a
semplice cultura. Per comprensibili ragioni, la somiglianza con un movimento
ebraico non è sbandierata dagli «illuministi islamici»: è più strano che non
la notino gli osservatori esterni.
Pur generando
anche vigorose reazioni «ortodosse», la Haskalah ebbe successo perché in
molti paesi (non in tutti) le sue idee corrispondevano a quelle diffuse
presso settori già molto ampi della popolazione ebraica. Le cose stanno in
modo del tutto diverso per l’«illuminismo islamico». Nelle sue diverse
versioni, raccoglie pochissimi consensi fra i musulmani, sia nei Paesi a
maggioranza islamica sia nell’emigrazione. Chi si presenta ai convegni
spesso vive in Occidente o è protetto da regimi laico-nazionalisti di dubbie
credenziali democratiche; talora tornando a casa rischia la pelle, e il suo
seguito è comunque scarso. Né si tratta di idee che potrebbero facilmente
affermarsi tramite la scuola e l’educazione. Ci provarono i discepoli dell’Atatürk
e la dinastia Pahlavi in Iran: ma in quelle scuole di Stato «illuministe»
avevano studiato i giovani che nel 1979 animarono la rivoluzione
fondamentalista di Khomeyni e la maggioranza che nel 2002 ha votato per i
partiti religiosi in Turchia.
Sostenere l’«illuminismo islamico», per l’Occidente, significa nella
sostanza dirottare verso battaglie contro i mulini a vento risorse che
potrebbero essere utilmente impiegate nel dialogo con quell’islam
conservatore che non ama Voltaire, non intende applicare il metodo
storico-critico allo studio del Corano, non concepisce una democrazia che
non sia dichiaratamente radicata nella religione, ma nello stesso tempo
condanna il terrorismo e prende le distanze dal fondamentalismo.
È questo islam conservatore – che in paesi come la Turchia e la Malaysia è
stato capace anche di vincere le elezioni – l’alternativa reale al
fondamentalismo.
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