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di
Massimo Introvigne
Si pensa di solito che la guerra – per qualcuno, una “quarta guerra
mondiale” (la terza essendo, in questo caso, la Guerra fredda fra Occidente
e comunismo) – fra il mondo libero e il terrorismo ultrafondamentalista
islamico si combatta principalmente in Irak, in Palestina, in Europa o negli
Stati Uniti. In realtà ci sono scenari cosiddetti secondari che sono di
cruciale importanza per il jihad
globale di Osama bin Laden. Tra gli ultimi giorni di marzo e la prima metà
di aprile avvenimenti importanti – e ingiustamente trascurati – hanno
attirato, o avrebbero dovuto attirare, l’attenzione su tre di questi
scenari: la Thailandia, il Sudan e l’Uzbekistan.
I separatisti della Thailandia del Sud
Nella notte fra il 27 e il 28 marzo una bomba montata su una motocicletta ha
ferito trenta persone nel bar di un albergo di Slungai Kolok, nel Sud della
Thailandia. Per una serie di coincidenze davvero fortunate, non ci sono
stati morti, e si potrebbe essere tentati di sottovalutare l’incidente.
Sarebbe un errore.
La Thailandia del Sud è ormai uno dei punti cruciali nella mappa del
terrorismo islamico. La Thailandia è una monarchia al novanta per cento
buddhista, ma nel 1902 ha deciso di occupare cinque province
semi-indipendenti della Malesia – Satun, Songkhla, Pattani, Yala e Narathiwa
– battendo sul tempo gl’inglesi. Queste zone – al confine dell’attuale
Malaysia – sono all’85% di religione islamica, e comprendono due milioni e
mezzo di musulmani che chiedono l’indipendenza. Come altre zone della
Thailandia – un Paese che ha il record
mondiale della prostituzione – sono anche dense di bordelli (dove le
prostitute appartengono in genere alla minoranza buddhista), frequentati sia
da thailandesi sia da ricchi malesi che sfuggono alle restrizioni che anche
un governo moderatamente islamico impone nel loro paese sul tema della
morale pubblica. Questo commercio – in cui l’albergo colpito era implicato –
suscita l’indignazione dei movimenti islamici militanti.
La maggiore formazione islamica è – o è stata – la Pattani United Liberation
Organization (PULO), fondata alla fine degli anni Sessanta del Novecento e
ufficialmente non più esistente dal 1996, quando la polizia thailandese ha
annunciato di averla definitivamente sconfitta. In realtà, la PULO si è
frammentata in una decina di sigle, alcune delle quali legate ad Al Qa’ida.
Il 4 gennaio di quest’anno una delle formazioni che rivendicano l’eredità
della PULO ha attaccato un deposito di armi della polizia a Narathiwat,
uccidendo quattro agenti e rubando centinaia di fucili. A fine marzo i
ministri thailandesi degl’Interni e della Difesa, che visitavano la regione,
sono sfuggiti a un attentato dinamitardo nella stessa città di Narathiwat,
che ha causato diversi feriti. Altri attentati – che hanno colpito
soprattutto le forze di polizia – hanno fatto cinquanta morti nel solo anno
2004. L’inchiesta relativa alla strage di Bali dell’ottobre 2002 ha provato
che i terroristi, legati ad Al Qa’ida, hanno progettato l’attentato nel Sud
della Thailandia e lì si sono addestrati.
Ci sono diverse ragioni per cui la Thailandia del Sud sta diventando una
polveriera. C’è un’ampia rete di scuole coraniche ultra-conservatrici
chiamate pendok finanziate
dall’Arabia Saudita: non sono accusate di legami diretti con il terrorismo,
ma allevano un tipo di musulmano sensibile ai richiami di Al Qa’ida. Il
territorio è difficile da controllare: in gran parte è in mano a “signori
della droga” colpiti da un giro di vite dell’attuale governo thailandese,
disposti ad allearsi con i terroristi islamici e a ospitare militanti di Al
Qa’ida provenienti da altri paesi (sono stati arrestati pakistani,
kuwaitiani e sauditi). Soprattutto, la base thailandese è destinata nei
disegni di Al Qa’ida a destabilizzare la vicina Malaysia, “cattivo esempio”
di nazione musulmana dove le elezioni di marzo hanno confermato al potere un
islam conservatore concentrato sul notevole sviluppo economico del Paese e
ostile ai terroristi. Il governo thailandese parla il meno possibile di
terrorismo, per non spaventare i turisti. Ma il problema è molto serio.
Sudan,
shari’a in salsa africana
Il 31 marzo è stato arrestato in Sudan Hassan al-Turabi. Una ulteriore
ondata di arresti ha coinvolto sette membri del suo partito e dieci alti
gradi dell’esercito, che preparavano un colpo di Stato fondamentalista.
L’attuale regime di Khartoum è nato, con il colpo di Stato del 1989, come
difficile coalizione fra due gruppi che non si amano: i nazionalisti arabi
guidati dal generale ‘Omar Hassan al-Bashir, tuttora presidente, e i
fondamentalisti islamici di Turabi uno dei
leader del fondamentalismo mondiale.
Nel 2000 il presidente al-Bashir ha escluso Turabi dal potere; nel 2001 lo
ha addirittura accusato di complottare contro di lui con gli odiati non
musulmani del Sud – etnie non arabe, in maggioranza cristiane, protagoniste
di una guerra che ha fatto oltre due milioni di morti – e lo ha fatto
arrestare. Rilasciato nel 2003, al-Turabi è l’ispiratore di una delle
fazioni (l’altra è laica, con influenze marxiste) della rivolta che anima
dal 2000 la seconda guerra civile sudanese. Si combatte nella regione
occidentale del Darfur, che per i cattolici è la patria di santa Josefina
Bakhita (1869-1947), una ex schiava divenuta religiosa in Italia e
canonizzata nel 2000, ma dove i musulmani sono la maggioranza assoluta. Lo
scontro è tra islamici, ed è etnico: gli africani (maggioritari) si
rivoltano contro le angherie degli arabi.
Turabi ha affascinato molti occidentali proponendo in numerose interviste
una versione suadente del fondamentalismo, che si afferma accompagnata da
una sofferta riflessione sui diritti umani. La realtà è diversa: Turabi ha
per anni sostenuto la politica del governo Bashir nella parte meridionale
del Sudan, dove nel corso di una guerra civile spietata e terribile è
riemersa anche l’antica piaga della schiavitù, inflitta a uomini e donne del
Sud, in particolare cristiani. Ed è stato lo stesso Turabi ad accogliere a
suo tempo in Sudan Osama bin Laden.
Pragmatico e disinvolto, Turabi non si è mai completamente fidato di Bashir.
Da quando nel 1996 il generale nazionalista ha espulso bin Laden dal Sudan,
costringendolo a rifugiarsi in Afghanistan, e ha iniziato un percorso di
riavvicinamento agli Stati Uniti, Turabi ha iniziato una politica autonoma,
cercando di sfruttare la guerra civile nel Sud per rovesciare il regime.
Questa strategia è sostanzialmente fallita: la mediazione americana (e anche
– è giusto ricordarlo – gli sforzi del nostro governo durante il semestre
italiano di presidenza europea) hanno avviato un processo di pace che
potrebbe concludersi a breve. Sconfitto nel Sud, Turabi cerca ora di pescare
nel torbido nel Darfur, a Ovest. La posta in gioco è l’instaurazione di un
regime fondamentalista in Sudan, o meglio la restaurazione di un tipo di
regime che è già esistito negli anni Novanta, con un ritorno al quinquennio
1991-1996 quando la diarchia Turabi-bin Laden, con la benedizione più o meno
spontanea di Bashir, aveva trasformato il paese in una delle basi del
terrorismo internazionale. Se si aggiungono i contatti di Turabi con le
feroci milizie dell’Esercito della Resistenza del Signore ugandese il cui
sanguinario leader Joseph Kony,
originariamente cristiano, è stato ora convertito all’islam da missionari
sudanesi, non si può non concludere che il rischio di destabilizzazione
riguarda l’intera regione. Quanto al governo Bashir, non è un modello di
rispetto dei diritti umani: ma in attesa che la fine della guerra civile al
Sud faccia emergere una nuova classe dirigente è per ora preferibile a
Turabi e ai suoi amici, che farebbero nuovamente del Sudan una portaerei
dell’ultrafondamentalismo protesa verso l’Egitto e l’Uganda.
L’Uzbekistan neointegralista
La ripresa del terrorismo ultra-fondamentalista islamico in Uzbekistan
(venti morti in tre giorni all’inizio di aprile) attira nuovamente
l’attenzione su una regione cruciale. Dieci dei cinquanta milioni di
musulmani dell’Asia Centrale vivono nella valle di Fergana, che dalla parte
orientale dell’Uzbekistan sconfina nel Tagikistan e nel Kirghizistan. Si
tratta di un’area sovrappopolata, povera, amministrata da una classe
dirigente corrotta che per di più non riesce a controllarne vaste zone,
porto franco per estremisti e terroristi di ogni genere.
La tradizione islamica locale è legata alle confraternite sufi, che hanno
animato la resistenza pacifica alle politiche antireligiose dell’era
sovietica. Dopo la caduta del comunismo, le poverissime istituzioni
islamiche uzbeke hanno dovuto accettare gli aiuti dell’Arabia Saudita, i cui
missionari hanno importato il puritano islam wahabita, che detesta e cerca
di smantellare il sufismo. Il governo che è emerso è secolarista, laicista e
nazionalista; il suo personale è composto da ex funzionari sovietici molti
dei quali in odore di legami con le fortissime cosche del crimine
organizzato. Gli imam formati dai
wahabiti sauditi denunciano la “mafiocrazia”, ma insieme propugnano
l’instaurazione di un nuovo califfato teocratico che comprenda tutta l’Asia
Centrale e si estenda fino al Sinkiang cinese.
Contro il nuovo islam wahabita il governo uzbeko ha usato la mano
pesantissima, ricorrendo alla retorica sovietica dei “nemici del popolo”. La
repressione si è estesa a tutte le forme di islam che rifiutano lo stretto
controllo dello Stato, comprese quelle radicate nella tradizione delle
confraternite sufi. Il gruppo più radicale, il Movimento Islamico dell’Uzbekistan
(IMU), è entrato in clandestinità alla fine degli anni Novanta e il suo
leader, Juma Namangani, ha aderito
alla rete internazionale di Al Qa’ida. Osama bin Laden ha ripreso la tesi
del califfato centro-asiatico, anche se Namangani è stato ucciso in
Afghanistan nel 2001. Il regime uzbeko, dal canto suo, ha presentato dopo
l’Undici Settembre non solo la lotta contro l’IMU, ma la repressione di
qualunque movimento musulmano indipendente come il suo contributo alla
guerra internazionale contro il terrorismo.
Ci troviamo qui di fronte a un problema familiare. Mentre nella capitale
Tashkent la popolazione “russificata” è in buona parte non religiosa, nella
valle di Fergana il consenso per le organizzazioni islamiche è valutato
intorno all’85%. Il regime di Tashkent mette sullo stesso piano l’IMU e l’Hizb
ut-Tahrir (Partito della Liberazione Islamica), anche se il secondo – pure
di ideologia fondamentalista assai rigida e anti-occidentale – si dichiara
almeno in teoria contrario alla violenza e al terrorismo. La logica secondo
cui in Uzbekistan, come altrove, l’alternativa è fra nazionalisti laicisti,
per di più corrotti, e fondamentalisti terroristi amici di bin Laden
contagia parecchi analisti occidentali, ma è sbagliata e pericolosa. Spinge
l’Occidente a sostenere regimi impresentabili e “mafiocratici”, che – se
hanno il solo merito di essere nemici dei fondamentalisti – sono anche
precari e destinati prima o poi a cadere. La scelta del vicino Tagikistan,
dove sotto pressioni americane alcuni movimenti dell’islam politico –
discutibili, ma non coinvolti nel terrorismo (o convinti ad abbandonarlo) –
sono stati “legalizzati” e ammessi a partecipare alle elezioni sembra andare
in una direzione migliore. L’alternativa all’islam radicale, in Uzbekistan
come altrove, non è la repressione indiscriminata della religione ma
l’emergere di un islam conservatore. Dove emergono esperimenti di islam
conservatore – come in Malaysia (o in Turchia) – per Al Qa’ida diventa
urgente farli fallire.
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