Islam L'Islam e la pace |
Islam. I due volti dei musulmani in Italia |
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MILANO - «A Ogni tanto qualcuno sparisce. Abdelkader Es Sayed, egiziano, frequentava la moschea di viale Jenner a Milano. Ora è, formalmente, latitante. Intercettarono una sua telefonata sei mesi prima dell'11 settembre: «I fratelli vanno in America». Lui è andato forse in Afghanistan. Un necrologio su un giornale arabo ne ha annunciato la morte, sotto le bombe americane, a Tora Bora. «Questa guerra è l'inizio della fine di un incubo. I padroni non hanno più fiducia nelle loro pedine, nei fantocci che comandano in loro nome sui Paesi arabi. Li vedono aggrappati alle poltrone ma incapaci di tenere le redini. Vogliono cambiarli, l'ha detto anche Powell. E saranno cambiati, ma non come vuole l'America; come vuole il popolo. Ci sarà un risveglio islamico. Tutto il mondo islamico diverrà un vulcano. Nasceranno Stati islamici». L'ultimo è sparito un mese fa. Dopo la preghiera, l'imam Abu Emad ha preso a informarsi discretamente se qualche devoto avesse visto uno dei suoi assistenti, Abu Omar, egiziano come lui. Nessuno l'aveva visto, neppure la moglie. Tranne una testimone, che racconta di un gruppo di uomini che l'ha spinto su un'auto e portato via. «L'Italia è sempre stata mediatrice tra l'Occidente e l'Islam, e questo era molto apprezzato dai governi e dai popoli arabi. Ora l'Italia ha imboccato un'altra strada. E' la stessa Italia che non ci riconosce pari diritti, ignora i nostri giorni festivi, non stringe con l'Islam l'intesa raggiunta con le altre confessioni, non costruisce le moschee: nel mio Paese, in Giordania, ci sono pochi cristiani e mille chiese; qui ci sono un milione e 200 mila musulmani e due moschee appena». Ogni tanto qualcuno viene arrestato. Kammoun Mehdi, Abdel Bem Soltane, Jelassi Riadh, tunisini, condannati a pene tra i 4 e 5 anni: custodivano armi, passaporti falsi, aggressivi chimici in un appartamento di Gallarate. Dopo l'11 settembre finiscono in carcere Abdelhailm Remadna, algerino, un altro assistente dell'imam Abu Emad: lo accusano di aver telefonato da viale Jenner in Afghanistan, sui satellitari di uomini di Al Qaeda. E Yassin Chekkouri, marocchino, detto il «monaco», indicato come contabile e responsabile della propaganda della cellula. Il processo è in corso. Chi parla non ha nulla a che vedere con loro. E' un medico che lavora in una Asl. Si è laureato alla Statale di Milano, dov'è arrivato trent'anni fa dalla Giordania, e si è specializzato in medicina interna. Parla un italiano perfetto anche nella fonetica, ad esempio nella «p», ostica per gli arabi. Ali Abu Shwaima è il presidente del centro islamico di Segrate, dove sorge la prima moschea costruita in Italia in età moderna, nel 1988, di fronte ai prati ben rasati e dalle case rosse di Milano 2, simbolo fondativo dell'impero berlusconiano. «Sono così vicini, ma non ascoltano la nostra voce... Si badi, quando dico che l'Iraq non si piegherà, che i fantocci saranno spazzati via, non dico che mi adopererò perché questo accada; dico che accadrà. Lei parla di fondamentalisti e moderati. E' una distinzione che per noi non ha alcun senso. O si seguono i dettami dell'Islam, o non si seguono. O si è buoni musulmani, o non lo si è. Il Papa è moderato o fondamentalista? Lei parla di kamikaze. Io condanno il kamikaze Sharon, assassino di bambini. Sharon che fa il kamikaze non sulla sua pelle, ma sulla pelle degli altri». L'altro polo dell'Islam di Milano è in viale Jenner. Secondo il ministero del Tesoro Usa, celava una base di Al Qaeda. Semicentro, un chilometro dalla stazione centrale, negozi, bar eleganti. «Sono bravi, non danno fastidio - assicura la cassiera -. Sono silenziosi». Anche troppo. Dopo il bar c'è un garage. Si entra, si supera un mendicante malese dal cappello vuoto, si gira a destra. Un'ala del garage è diventata moschea. Siccome è troppo piccola e il venerdì arrivano mille e più fedeli, si prega nel cortile; il garage chiude, le auto escono dal retro. Il mihrab è una porticina nella parete di legno, il minbar una scaletta. All'ingresso, macelleria islamica, mensa, libreria con pile di copie del Corano. Odori intensi di spezie, sugo, scarpe. Barbe spioventi sul petto. Bozzi in fronte a testimoniare l'intensità della fede. Galabeye sino ai piedi. Sono una trentina, mangiano, guardano la guerra in tv su un canale arabo, leggono la «Gazzetta dello Sport». Proteggono l'imam Abu Emad, quello che, se le accuse saranno dimostrate, forse dovrebbe dedicare maggior cura alla scelta degli assistenti. «C'è molta gente che va e viene, mica posso chiedere a tutti la fedina penale - dice l'imam, che si distingue dai fedeli per mole e lunghezza della barba -. Dello scomparso non so nulla. Aveva ottenuto asilo politico, era sotto la protezione dello Stato italiano, spetta alla polizia italiana trovarlo». Abu Emad è qui da anni ma non parla la nostra lingua, la conversazione avviene un po' in inglese un po' in arabo, tradotto da un operaio egiziano, Mohammed. Si beve succo di mango, si parla di guerra: «La pensiamo come gli italiani, siamo costernati, angosciati - dice l'imam -. Berlusconi non è l'Italia, così come Mubarak non è l'Egitto. Non ha visto gli scontri con gli idranti al Cairo, davanti alla grande moschea al Ahzar? Non ha visto qui a Milano quante bandiere della pace? Non ha ascoltato il Papa? Ecco, noi ci sentiamo così». Sui muri, volantini bilingui di «comitati di lotta» invitano all'alleanza tra sinistra antagonista e «proletariato arabo, peggior nemico interno del capitalismo, anello debole della catena di comando». Su un cartello, bandiera americana stillante sangue, con un'unica stella - quella di David - e un'asta di teschi. Su un tavolo, cassetta delle offerte «per gli ingiustiziati». «Sono per la manutenzione della moschea», è la traduzione di Mohammed. Alla moschea di Segrate pregano in quattro. Qui si viene quasi solo il venerdì, in macchina. Accanto ai barbuti e agli operai c'è la piccola borghesia musulmana, radicata da anni, medici, avvocati. E gli italiani convertiti, anzi «tornati all'Islam - corregge Shwaima -. Non esistono convertiti. Tutti i bambini sono muslumani. Obbedienti a Dio». Il centro pubblica da 23 anni un giornale in italiano, «Il Messaggero dell'Islam». Dietro il muro di cemento c'è il cimitero. La moschea ha tappeti, archi e un bellissimo lampadario. Iscrizione: «Allahumma», o mio Dio, «anta s-salam wa min kas salam», tu sei la pace e da te solo la pace viene, «wa ilap ka purgia u s-salam», e a te la pace torna. Il muezzin chiama, Shaima prende congedo e si inginocchia a pregare. E Bin Laden? «Potrebbe affascinare i giovani che non conoscono il mondo. Come un calciatore, un cantante». Anche il presidente del centro islamico di viale Jenner è in Italia da tempo. Abdelhamid Shaari viene dalla Libia. Non crede che il terrorismo islamico colpirà pure qui, non ritiene possibile una saldatura con gli avanzi del terrore rosso. «Da noi passa tanta gente, io non conosco tutti. Qualcuno ci ha schizzato addosso fango. Ma se un mafioso entra nel Duomo non si incolpa la chiesa. E se avessimo una moschea vera sarebbe più facile controllare, inquadrare».
Anche Shaari ha apprezzato le parole del Papa, ritiene che la carta del
Medio Oriente sarà rivoluzionata dalla guerra, rifiuta di condannare il
kamikaze che si è lanciato contro i carri americani: «Gli iracheni si
difendono da un'aggressione». In viale Jenner, un altro volantino bilingue
invita a «non dare credito alle borghesie arabe corrotte e al pacifismo dei
signori della guerra europei. Boicottiamo i prodotti Usa. Rivoltiamo le
metropoli». Passano cinesi, africani, indonesiani. Il mendicante malese è
ancora lì, il cappello sempre vuoto. I commercianti milanesi abbassano le
serrande. Due popoli si sfiorano, si evitano. Dalla casa di ringhiera che dà
sul garage e sulla moschea si affacciano prostitute slave seminude. Nessuno
dei barbuti leva il capo a guardarle. |
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Islam: «Islam. I due volti dei musulmani in Italia», La Stampa 27.3.2003 |