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Voglio congratularmi con l’Istituto Veritatis Splendor
per l’iniziativa di questo convegno. Le tematiche che qui
saranno toccate non soltanto sono per se stesse di grande
rilievo, ma anche si connotano di un’attualità viva e
(sembra di poter dire) crescente. La felice pluralità delle
voci saprà ben lumeggiare, ne sono certo, i vari argomenti;
argomenti distinti tra loro e multiformi, ma contigui e anzi
in più di un caso vicendevolmente connessi.
Per parte mia, vorrei richiamare l’attenzione su due
differenti questioni, che già altra volta mi hanno dato
l’occasione di esprimere qualche convincimento: quella
dell’identità cristiana entro la dominante “cultura del
dialogo” e quella dell’immigrazione nelle nostre terre. Dico
subito che, se la mia “forma mentis” è quella del teologo
(sia pure di un teologo in disarmo), le mie prospettive e i
miei interessi sono quelli del pastore.
La questione
del “dialogo”
La necessità del dialogo - oggi enfaticamente asserita un
po’ in tutti i contesti, fino a essere quasi ossessiva - è
quasi un’ovvietà. Come potrebbero vivere gli abitanti di un
pianeta così fortemente comunicante e unificato come il
nostro, senza parlarsi e confrontarsi tra loro? Possiamo
anzi essere d’accordo anche sulla doverosa ricerca della
reciproca comprensione attraverso una benevola attenzione
all’ “altro” (questo pare sia oggi il senso culturale del
termine “dialogo”).
E’ tuttavia innegabile che nella concretezza esistenziale
del rapporto tra non credenti e credenti (almeno quei
credenti che non vogliono smarrire la loro originale
identità) emerge a questo proposito qualche problema, che
deve essere correttamente affrontato. Basterà pensare alla
pubblicazione, lo scorso anno 2000, da parte della
Congregazione per la dottrina della fede della Dichiarazione
Dominus Iesus:
non era mai capitato
- in venti secoli di cristianesimo - che si sentisse il
bisogno di ricordare ai discepoli di Gesù una verità così
elementare e primaria come questa: il Figlio di Dio fatto
uomo, morto per noi e risorto, è l’unico necessario
Salvatore di tutti. Evidentemente si è temuto che di
questi tempi Gesù Cristo potesse diventare l’illustre
vittima del dialogo interreligioso.
Paolo VI - che con l’enciclica Ecclesiam suam
(1964) ha introdotto ufficialmente il tema nei documenti del
Magistero - ha chiarito le opportunità, i metodi, i fini, ma
si è volutamente astenuto da dare alla proposta di “dialogo”
una vera e propria fondazione teologica. Il che è forse alla
fonte delle intemperanze e delle ambiguità che hanno poi
aduggiato la cristianità .
Nel tentativo di attenuare tale inconveniente e nella
speranza che il discorso sia poi proseguito dagli addetti ai
lavori (possibilmente senza eccessive precomprensioni
ideologiche e senza troppo indulgere alla moda del
“politicamente corretto”), mi proverò a elencare alcuni
elementi di riflessione a mio avviso incontestabili e
ineludibili.
1. L’evento salvifico - nei due fatti costitutivi
dell’incarnazione del Verbo e della risurrezione di Gesù -
sta all’origine del cristianesimo e ne rappresenta in forma
perenne e definitiva il senso e il cuore. Essendo dei
“fatti”, essi non sono “trattabili”: chi “crede” non li può,
restando logico, né attenuare né mettere tra parentesi; chi
“non crede” non li può razionalmente accettare.
Sono dunque culturalmente “laceranti”. Il che è chiaramente
insegnato dalla parola di Dio in alcuni testi oggi
abbondantemente censurati:
- “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in
Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i
pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35).
- “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla
terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada” (Mt
10,34).
- “La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata
testata d’angolo…Chi cadrà su questa pietra sarà
sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà”
(Mt 21,42.44).
Alla luce di questi insegnamenti,
il principio che “bisogna
guardare più a ciò che ci unisce che a quello che ci divide”
(utilissimo nella sua accezione “politica” e
comportamentale) diventa ambiguo fino a essere deviato e
alienante nell’ambito del dialogo interreligioso: il
cristiano guarda - e non può mai cessare di guardare -
soprattutto a ciò che la Rivelazione gli ha indicato come
eminente e sostanziale.
2.
Nel cristiano la fede è un’intelligenza assolutamente
nuova e imparagonabile, che gli deriva dalla luce
comunicatagli dallo Spirito del Signore risorto: tale luce
ha come effetto proprio di far partecipare alla conoscenza
stessa che possiede il Signore Gesù. Chi ne è privo, manca
del principio conoscitivo adeguato a cogliere il significato
ultimo di questo ordine di cose concretamente esistente (che
è incentrato in Cristo ed è dunque “soprannaturale”).
E’ l’insegnamento esplicito e inequivocabile di san Paolo,
che chiarisce la differenza e la fatale incomunicabilità che
c’è tra l’uomo “pneumatikòs” e l’uomo “psychikòs”: “Noi non
abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio
per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato…L’uomo
“psichico” invece non comprende le cose dello Spirito di
Dio; esse sono follia per lui e non è capace di intenderle,
perché se ne può giudicare per mezzo dello Spirito” (cf 1
Cor 2,12-15).
3.
Secondo la dottrina di san Paolo, tutto dall’inizio è
stato pensato e voluto in Cristo
(cf Col 1,15-20). E dunque
ogni uomo è stato esemplato su Cristo: proprio in quanto
uomo, egli è una iniziale immagine del Figlio di Dio. Si
deve dunque pensare che nessun uomo, in questa “economia”
cristocentrica, sia abbandonato entro i confini della pura
naturalità e sia lasciato senza alcun aiuto che lo
proporzioni almeno per qualche aspetto alla soprannaturalità
dell’universo come in realtà esiste.
4.
“Lo Spirito - ha detto Gesù - spira dove vuole” (cf Gv
3,8). Non è da sottovalutare la libera azione illuminante
che è propria dello Spirito Santo, effuso sull’umanità dal
Signore che sta alla destra del Padre. E’ un’azione alla
quale noi non possiamo “a priori” assegnare nessun confine.
Le intelligenze umane, anche se di solito non arrivano a
percepirlo, sono spesso “pneumatizzate” quando si pongono
sinceramente al servizio della verità.
In un’opera attribuita un tempo a sant’Ambrogio si trova a
questo proposito un’affermazione illuminante (ripetutamente
ricordata da san Tommaso d’Aquino): “Quidquid verum a
quocumque dicitur, a Sancto dicitur Spiritu” (Anbrosiaster,
In primam ad Cor. XII, 23).
Come si vede, la risposta al problema se sia o no possibile
un dialogo tra il credente e non credente non è semplice
perché è una risposta “dialettica”, e sono diversi gli
elementi che interagiscono.
Certo, non c’è alcuna possibilità di intesa tra la fede e
l’incredulità, considerate come atteggiamenti mentali e
spirituali totalmente estranei e tra loro antitetici. Ma noi
dobbiamo sempre cercare di avvalorare (e rendere
auspicabilmente feconda di verità) l’iniziale conformità a
Cristo che si trova in ogni uomo. Senza dire che il non
credente può essere portavoce inconsapevole dello Spirito
Santo; sicché “a priori” non possiamo trascurare di
ascoltarlo con qualche speranza; e, nel caso più fortunato,
di convenire con lui.
La questione
dell’immigrazione
Sull’immigrazione mi limito a richiamare schematicamente
quanto ho avuto occasione di dire lo scorso anno.
Alle comunità cristiane proponevo tre persuasioni semplici
ed essenziali.
1.
Non è per sé compito della Chiesa e delle singole
comunità risolvere i problemi sociali che la storia di volta
in volta ci presenta. Noi non dobbiamo perciò nutrire nessun
complesso di colpa a causa delle emergenze anche imperiose
che non ci riesce di affrontare efficacemente.
2.
Dovere statutario del popolo di Dio e compito di ogni
battezzato è di far conoscere Gesù di Nazaret, il Figlio di
Dio morto per noi e risorto, e il suo necessario messaggio
di salvezza. E’ un preciso ordine del Signore e non ammette
deroga alcuna. Egli non ci ha detto: “Predicate il Vangelo a
ogni creatura, tranne i musulmani, gli ebrei e il Dalai
Lama”.
3.
Allo stesso modo, è nostro dovere l’osservanza del
comando dell’amore. Di fronte a un uomo in difficoltà -
quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua
religione, la legalità della sua presenza - i discepoli di
Gesù hanno il dovere di amarlo operosamente e di aiutarlo a
misura delle loro concrete possibilità.
Tre convincimenti esprimevo anche nei confronti dello Stato
italiano.
1. Di fronte al fenomeno dell’immigrazione, lo Stato non può
sottrarsi al dovere di regolamentarlo positivamente con
progetti realistici (circa il lavoro, l’abitazione,
l’inserimento sociale), che mirino al vero bene sia dei
nuovi arrivati sia delle nostre popolazioni.
2.
Poiché non è pensabile che si possano accogliere tutti, è
ovvio che si imponga una selezione. La responsabilità di
scegliere non può essere che dello Stato italiano, non di
altri; e tanto meno si può consentire che la selezione sia
di fatto lasciata al caso o, peggio, alla prepotenza.
3.
I criteri di scelta non dovranno essere unicamente
economici e previdenziali: criterio determinante dovrà
essere quello della più facile integrabilità nel nostro
tessuto nazionale o quanto meno di una prevedibile
coesistenza non conflittuale. Un "ecumenismo politico" (per
così dire), astratto e imprevidente, che disattendesse
questa elementare regola di buon senso amministrativo,
potrebbe preparare anche per il nostro popolo un futuro di
lacrime e di sangue.
Ho la presunzione di avere con ciò enunciato in termini
estremamente chiari delle proposte del tutto ragionevoli
(anzi, se si vuole, “laicamente” ragionevoli). E moltissimi
le hanno intese e apprezzate.
Mi sfugge invece come sia stato possibile muovere a questa
posizione da parte di altri accuse come quelle di
integralismo, di prevaricazione clericale, di intolleranza,
di atteggiamento antievangelico, eccetera. L’ipotesi più
misericordiosa che mi si presenta è che da parte dei miei
critici, per il brigoso impegno di parlare, non si sia
trovato il tempo di leggere ciò che io avevo scritto.
Quella dell’immigrazione è una questione difficile e
complessa, e va affrontata con serietà di informazione e di
indagine. Non si tratta perciò soltanto di leggere ciò che
si vuol contestare (che è il minimo che si deve fare);
bisogna anche - per dirla col
Manzoni - “osservare,
ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”.
“Ma parlare, - continua il Manzoni con la sua saggezza al
tempo stesso sorridente e impietosa -
questa cosa così sola,
è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che
anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da
compatire” (I promessi sposi, cap. XXXI).
Tanto più quindi mi compiaccio dell’accurato programma di
ricerca, di analisi, di discussione, che arricchirà le
giornate di questo Convegno. Al quale auguro di cuore un
lavoro sereno e fruttuoso.
I
Cavalieri di Malta in battaglia con i turchi
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