Film

The Passion of the Christ, di Mel Gibson

Il film di Gibson: The Passion of the Christ

Il vero significato del film sta nella condivisione del dolore dopo l'11 settembre

 

 
 di Carlo Freccero


Dopo l'11 settembre, 11 marzo, la passione religiosa rischia di diventare il nuovo ordine del discorso anche a livello sociale, di dettare l'agenda politica.
La politica non si fonda più sulla ragione, sull’economia, ma nella religione, con conseguenze apocalittiche.

L’Islam ha liberato la passionalità di tutte le altre fedi. La ferita dell'11 settembre, inferta al cuore dell'impero, ha reinserito nel dibattito occidentale valori “pesanti” come l’integralismo religioso, il moralismo sociale, il concetto di patria e libertà. L'occidente non è oggi più musulmano, ma sicuramente più integralista e cronologicamente inserito in un’era pre-illuminista e pre-moderna dove hanno di nuovo spazio valori e categorie obsolete.

In questo nuovo ordine del discorso si inserisce il film di Gibson "La passione di Cristo". Il film è sulla passione religiosa allo stato puro.
Perché questa passione religiosa è così scandalosa? Perché si fonda sulla visione del supplizio che nell'etica illuminista è impresentabile, barbarico.
Ed è un supplizio che ha per oggetto il corpo di Cristo, la personificazione della divinità.
Solo nel Cristianesimo esiste il paradosso per cui Dio prende corpo, il Verbo si fa carne. Nelle altre religioni il divino è irrappresentabile. Il supplizio, la materialità, la carnalità, sono esclusivi del Cristianesimo, il Crocefisso ne è il simbolo.
E il supplizio, la passione, sono fatti per essere visti.

Se esiste una storia dell'arte occidentale ciò è dovuto alla figura di Gesù Cristo che opera una mediazione tra divino e umano rendendo il soggetto religioso rappresentabile. La nostra storia dell'arte è tutta rappresentazione del sacro. Se torniamo alle origini del Cristianesimo, vedremo che uno dei temi fondamentali era proprio la rappresentabilità del divino, la sua traduzione in immagini. Il primo a pronunciarsi in favore della figurazione fu Papa Gregorio Magno nella seconda metà del VI secolo “La pittura può servire all'analfabeta quanto la scrittura a chi sa leggere” affermò.

La questione della rappresentabilità del Sacro fu uno dei principali motivi per cui la parte orientale dell'impero romano, con capitale Bisanzio, rifiutò la supremazia del Papa.
Nel 754 prevalse a Bisanzio il partito degli Iconoclasti e le immagini vennero vietate. La nostra storia dell'arte non sarebbe esistita se l’iconoclastia si fosse affermata anche presso di noi.

Indipendentemente dalle idee religiose la figurazione fa indissolubilmente parte della nostra cultura, dalla nostra sensibilità, della nostra civiltà.
L'interdetto che colpisce oggi o colpiva fino a ieri la rappresentazione della sofferenza, è legato piuttosto ad alcune tappe del pensiero occidentale laico. In primo luogo all'interdetto del supplizio, che viene introdotto in Occidente con l’illuminismo. Secondo il Foucault di “Sorvegliare e punire” la punizione non avrà più per oggetto il corpo del condannato, ma la sua anima. Il suo scopo sarà la rieducazione del condannato.
Sparisce dalle piazze l'esecuzione come spettacolo, Ed oggi percepiamo come barbarica l’amministrazione della giustizia nei paesi islamici, con pene pubbliche come lapidazione, fustigazione, mutilazioni.

L'aspetto flamboyant del sacro sopravvive però nell’immaginario religioso sino al concilio Vaticano II e viene completamente depotenziato solo dall’“edonismo reaganiano”, dal consumismo degli anni '80, da una visione del mondo votata ai consumi e non ad una visione penitenziale della vita.

Nelle nostre soffitte, nelle case di campagna, possiamo ancora trovare vecchi quadri con l'immagine del Sacro Cuore.
E' l'immagine della Divinità che per amore si apre a noi, espone le sue viscere, il cuore vivo e palpitante. Se non fossimo abituati a percepire quest’icona come consueta, potremmo esserne sconvolti. Questo immaginario religioso carico di passione e di colore, sopravvive solo nelle cerimonia della settimana santa quando immagini sacre costruite ed elaborate in epoche precedenti, crocefissi e statue lignee, ci ricordano il peso della sofferenza e del sacrificio nella nostra fede.
Oggi quest’immaginario torna attuale. A renderlo rappresentabile hanno contribuito le stragi, la guerra, l'islamismo, la crisi dell'ottimismo e del consumismo.

La prova sta nel successo dei film di Gibson. Criticato e contestato dalla critica e da una parte della Chiesa Cattolica, quella più legata ai valori del Concilio, il film sta conoscendo un successo travolgente, senza precedenti e non tanto come film, quanto coma icona della religiosità cristiana.
Comunque si voglia valutare il fenomeno, questo significa une sola cosa: nel suo apparente anacronismo questo testo si rivela attuale e leggibile al grande pubblico. Ciò implica una frattura a livello dl sensibilità estetica e morale, una frattura nel linguaggio figurativo.

Ritorna così il grande rimosso degli ultimi decenni; la sofferenza unita al tema cristiano, sempre rappresentato, della pietà. L'icona cristiana della pietà è la vergine Maria che regge in grembo il corpo del figlio.
Del film di Gibson la critica ha sottolineato soprattutto la violenza, ma secondo me il vero significato sta nell’empatia, nella condivisione del dolore. Mentre il corpo del Cristo viene straziato c'è una rete di sguardi tra le pie donne che si pone su un piano ulteriore e restituisce al film un nuovo significato.
È un film di sguardi, per farci capire la passione di Cristo, è sofferenza, sofferenza d'amore.
 
 

Film: «Il vero significato del film sta nella condivisione del dolore dopo l'11 settembre», di Carlo Freccero,  Dagospia, 07 aprile 2004

 

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