|
Davide Rondoni
Tornavamo
dal mare, il nuovo romanzo dello scrittore milanese. Gli anni del
terrorismo alla luce del rapporto tra una madre e la figlia. Ma non solo...
Luca Doninelli mi saluta uscendo come al solito a braccia larghe sulle scale
di Viale Argonne. Sediamo nella stanza sotto i grandi quadri dei suoi amici
pittori. Sul tavolo i quaderni dei compiti dei suoi figli, del lavoro di
traduttrice della moglie. È appena uscito un suo romanzo, Tornavamo dal mare
(Garzanti) e lui sta già pensando al prossimo, di cui da un po’ di tempo va
dicendo: sarà “il” mio grande romanzo. Intanto questo ora in libreria è un
romanzo molto bello, già dalla copertina con una splendida foto che, come
annota Luca in principio, ha avuto buona parte nella riuscita del racconto.
Allora - gli chiedo - come ti è venuto in mente di scrivere una storia che
entra nel vivo degli anni tra ’68 e ’77(tra contestazione e terrorismo)
mettendo al centro il rapporto tra una madre e una figlia? Lui, come fanno
gli abituati del pensamento ironico e sottile, butta lì: «Guardando la tv,
ho visto una madre in un film che rientrava in casa e aveva la faccia
sconvolta da una cosa vista fuori, e che però non la dice ai suoi».
In effetti, il romanzo di Luca inizia così. Ester, una bella cinquantenne
milanese ed ex sessantottina rientra nella casa di vacanza in montagna, dove
la figlia ventenne sta guardando il gatto. Ha avuto un colloquio con
qualcuno al cancello e ne torna con l’espressione turbata. Ma non dirà
niente alla figlia. Come ogni buon romanzo, l’autore sa prendere da
principio il lettore sul filo di un segreto. E quel segreto condurrà il
lettore, che nella prosa di Luca viene catturato da un andamento avvolgente
e pur scheggiato da mille sorprese, acutezze, spunti controcorrente.
« A Milano il ’68 è stato soprattutto una faccenda al femminile - dice Luca
- avevo in mente certe figure precise di ex protestatarie che ora passano il
tempo a fare corsi di ogni genere e non riescono a capire come mai le loro
figlie siano così diverse. La ragazza, Irene, è modellata su una che conosco
davvero».
Riferimenti più o meno espliciti
Mi colpisce il fatto che qui ai protagonisti le cose, le parole che diranno,
vengano spesso in mente quasi per caso, senza una connessione con i fatti o
il contesto. Tu la esibisci più volte questa caratteristica.
« Nella vita accade così - dice Luca - quante cose mi vengono in mente
perché mi cade sott’occhio qualcosa. A volte il caso indica qualcosa di più
vero rispetto a ciò su cui ti stai concentrando. E comunque anche un
pensiero che sorge è un avvenimento. Il pensiero, come un fatto, avviene».
Nel romanzo ci sono riferimenti più o meno espliciti a vicende, a
protagonisti reali, e a usi di un periodo che ha segnato profondamente la
generazione a cui Luca appartiene. Un’idea determinista della storia e
l’idea che la rivoluzione fosse la chiave di volta per il progresso ha
nutrito le menti più fervide e anche impegnate della sua età e quella di
molti suoi fratelli maggiori. Un periodo in cui la possibilità dell’uso
della violenza, fino a quella terroristica, è entrata nella vita di molti
giovani borghesi della Milano bene, e in cui l’ideologia è passata come un
vento che poi ha lasciato il posto a vite riassestate intorno a una buona
professione, all’agiatezza e alla analisi a volte spasmodica del proprio
“vissuto”. Tutto questo Luca ha raccontato dall’angolatura speciale, ricca
di infinite sfumature del rapporto tra figlia e madre e tra la ragazza e lo
zio.
Segreto terribile
« Lo zio è l’unico che non è determinista, capisce che la storia non è così.
Ha un’apertura che affascina la ragazza. La giovane è una che anche di
fronte allo svelarsi di un terribile segreto che la riguarda non avverte
niente. Ecco, quando penso alle brutte possibilità della storia penso anche
a questo non sentire niente di fronte a cose gravi, importanti».
Il romanzo ha un andamento per capitoli brevi, con una concatenazione per
evocazioni e richiami. La lettura procede senza fatica, talora qualche
“tirata”, o la fin troppo sfuggente finezza di taluni particolari fa un poco
rallentare, ma nel complesso è un romanzo che si legge agevolmente. Ci sono
pagine di struggente bellezza, dove rapide descrizioni di momenti di Milano
o della montagna fanno intendere che lo scrittore qui ha avuto momenti di
sconforto, di grazia e di lavoro febbrile. Anche un lettore ed estimatore di
Luca come Claudio Magris, durante una recente loro conversazione riportata
dal Corriere della Sera, si soffermava sul valore di certi momenti lirici
del romanzo.
Dico a Luca che in queste pagine compare spesso la poesia. Non solo perché
una dei protagonisti è una poetessa, stramba e vitale, una che «obbediva
alla poesia proprio come un soldato o un ecclesiastico obbediscono ai loro
superiori». Intendo proprio che ci sono versi che tu riporti da diversi
poeti, e citazioni, da Rilke, a Caproni, a Hölderlin… Come se per raccontare
davvero a un certo punto si dovesse arrivare alla poesia. Forse perché sono
parole che portano immediatamente con sé, nella storia, quel rimbombo,
quell’altro spazio, quel movimento del destino...
L’amico che molti considerano a ragione uno dei migliori narratori italiani,
uno dei più forti e profondi mi guarda e risponde: «È grandiosa la poesia
citata di Hölderlin (O Conciliante, o Tu - non mai creduto; ndr). Lui aveva
proprio capito che Dio è il conciliante. Ma non in senso dolciastro. È
l’unico che può conciliare l’inconciliabile della vita… Dalla poesia ho
ricavato anche una delle figure che compaiono, l’infermiera… Voglio dire che
è forse un tipo di figura umana che ho ricavato da certe poesie di Luzi o
forse altri… E poi forse avevi ragione quando mi dicevi che la poesia è più
importante…».
Che cosa muove la storia
Il finale del romanzo vede una strana pattuglia di persone radunate intorno
a un morente, che però alcuni di loro non vedono che di sfuggita. Il
personaggio del morente (che richiama un uomo veramente esistito e
protagonista di quegli anni di “guerra”) è una figura potentissima, una
grande realizzazione di Doninelli. Il romanzo qui rivela la ferita su cui è
costruito. Non è un romanzo su un tema, per quanto esso sia vivo e ancora
urgente. In quel personaggio che in modo strano, per via di omissioni,
finisce per giganteggiare si assommano le contraddizioni e il possibile
definitivo sfacelo di una generazione di lotte, di utopie e di efferati
regolamenti di conti. Ma diventa, come i grandi personaggi dei romanzi di
ogni epoca, un chiodo che si pianta nella carne, la bruciatura che l’anima
riceve dall’accostarsi ai grandi enigmi della vita. È il momento in cui in
alcuni colloqui tra lo svagato e lo sgomento si giunge all’acme del problema
toccato da Luca con il suo racconto, il problema su cui quella generazione
ha giocato la propria partita. Che cosa può fare andare avanti la storia?
L’immagine che suggerisce il finale è non solo il compimento dell’inquieto
personaggio di Irene, la ragazza, ma un suggerimento potente e discreto,
dato in un gesto.
«Ci ho messo un anno a scrivere l’ultima pagina», mi dice Luca.
|
|