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di Carlo
Maria Martini
"In
quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli
circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato
con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù
rispose: "Credete che quei Galilei fossero più
peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte?
No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo
stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre
di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di
tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi
convertite, perirete tutti allo stesso modo"".
INTRODUZIONE
I
temi del mio discorso, indicati nel titolo, hanno
accompagnato da sempre l'umanità, da quando Caino alzò
la mano proditoriamente su Abele e lo uccise (Gen 4,8) e da
quando Dio dichiarò: "Però chiunque ucciderà Caino
subirà la vendetta sette volte" (Gen 4,15), fino alla
parola di Gesù: "Vi lascio la pace, vi do la mia
pace" (Gv 14,27).
Ma in questi mesi, a partire dall'11
settembre,
tali temi sono ritornati di bruciante attualità.
I
fatti li conosciamo:
gravissimi attentati terroristici che rivelano una capacità
inaudita di odio e fanatismo, che si serve di tecnologie
raffinate e si nutre di forme finora inedite di
fondamentalismo civile e religioso (pensiamo a tutti gli
aspiranti suicidi). Agli attentati è seguita un'azione di
caccia ai terroristi che è sfociata in una guerra in
Afghanistan. In questi ultimi giorni, poi, si sono
moltiplicati vergognosi attentati suicidi contro cittadini
inermi in Israele, a cui hanno fatto seguito ritorsioni e
azioni militari in Palestina, in luoghi dove ormai da anni
c'è un crescendo di violenza di cui non si vede la fine.
1.
Uno sguardo al vangelo (Lc 13,1-5)
Questi fatti ci addolorano, ci interpellano, ci
sconvolgono. Pensiamo con dolore agli innumerevoli
morti, ai feriti che porteranno per tutta la vita il segno
della tragedia, alle famiglie distrutte, ai milioni di
profughi, al pianto dei bambini mutilati. Nascono molte
domande, ipotesi, inquietudini. Domande di carattere umano e
religioso e anche di carattere politico. Si vorrebbe capire,
giudicare, vedere come agire per farla finita con il
terrorismo, la paura, la guerra, come operare seriamente per
una pace duratura.
Certamente la situazione è ancora troppo complessa e
fluida per descriverla in maniera adeguata. Ogni giorno,
poi, aggiunge la sua sorpresa, per lo più dolorosa. Avevo
iniziato queste riflessioni partendo anzitutto
dall'attentato alle torri gemelle, ma gli eventi in
Afghanistan e negli ultimi giorni la recrudescenza degli
eccidi in Medio Oriente hanno via via allargato il mio campo
di discernimento. Del resto è
innegabile che nella preparazione della tragedia dell'11
settembre ha avuto un ruolo non secondario il risentimento
accumulato nell'annoso conflitto israeliano-palestinese.
Perciò mi sono chiesto con insistenza e ho chiesto al
Signore: in
questo turbine della nostra storia, ha davvero senso parlare
di pace? E in che modo, e a quale prezzo?
Parlando, leggendo e ascoltando molto, mi sono accorto di
come anche i pareri siano tanto divergenti. Molteplici i
punti di vista, gli angoli di visuale; fortissime le
passioni, i coinvolgimenti emotivi; resistenti a sgretolarsi
le precomprensioni, soprattutto quelle inconsce. Sembrerebbe
più saggio attendere, pregare, e per intanto sanare e
medicare in quanto si può le ferite, come in emergenza. Ma
sant'Ambrogio non si è sottratto alla riflessione e al
tentativo di giudizio su fatti assai gravi, pubblici e
controversi del suo tempo. Così il suo umile successore
chiede, per l'intercessione del nostro Patrono e con l'aiuto
delle preghiere e dei suggerimenti di tanti, la grazia di
poter parlare a voce alta di queste cose di fronte a Dio, al
vangelo e alla coscienza dell'umanità. Sono numerose le
pagine bibliche evocate in questi mesi per cercare luce
nella parola di Dio. Io vorrei partire dal passo evangelico
di Luca
(13,1-5)
che è stato letto durante la preghiera vespertina: si
tratta di due affermazioni o reazioni di Gesù, posto di
fronte a gravi fatti di sangue di origine politica e a
dolorose calamità naturali.
"In
quello stesso tempo si presentarono a Gesù alcuni a
riferirgli circa quei Galilei il cui sangue Pilato aveva
mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola
Gesù rispose: Credete che quei Galilei fossero più
peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte?
No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo
stesso modo. O quei diciotto sopra i quali rovinò la torre
di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di
tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi
convertite, perirete tutti allo stesso modo".
Noto un particolare curioso. S. Ambrogio, che pure
commenta con accuratezza e talora con pedanteria l'intero
terzo vangelo, su tale punto è reticente. Sorvolando su
qualunque sentimento antiromano che poteva risultare dal
crimine di Pilato, si limita a un'affermazione marginale,
ipotizzando, per il massacro di Gerusalemme, una colpa
rituale dei Galilei uccisi, così da farne un caso esemplare
di punizione "per coloro che su istigazione diabolica
non offrono il sacrificio con animo puro" (Esp. del
Vang. Sec. Luca, VII, 159). Evita quindi di lasciarsi
coinvolgere dalle ardue domande politiche e teologiche che
emergono da tali eventi e lascia senza commento lo
sconcertante e inedito comportamento di Gesù. Noi però non
riusciamo a fare altrettanto.
Gesù si trova infatti di fronte a un groviglio di
problemi etici, teologici e politici. Gli interrogativi
che emergono sono analoghi ma superiori per gravità a
quello sul quale sarà poi interrogato a proposito del
tributo da pagare a Cesare (Lc 20,20-26): interrogazione
quest'ultima - nota l'evangelista Luca - propostagli
"da informatori che si fingevano persone oneste, per
coglierlo in fallo nelle sue parole e poi consegnarlo
all'autorità e al potere del governatore" (Lc 20,20).
Qui si tratta ugualmente di domande a trappola, ma a
proposito di fatti ben più sconvolgenti. V'è in questione
ciò che noi chiameremmo una "strage di Stato",
voluta dal rappresentante dell'imperatore e per di più
perpetrata nel luogo sacro del tempio: quindi un massacro
avvenuto probabilmente durante le festività pasquali, nel
quale dovevano essere state trucidate molte persone, forse
terroristi disposti al sacrificio supremo. Non sappiamo
quanti fossero, ma è sufficiente ricordare che alcuni anni
prima il predecessore di Pilato aveva ucciso in una sola
occasione tremila ebrei.
Gesù viene dunque provocato a esprimersi e a dare un
giudizio: condannerà l'assassinio politico, voluto per
umiliare ulteriormente gli Ebrei e profanare il tempio?
griderà contro la crudeltà e il cinismo del regime
dominante? Oppure, come altri in Israele che ritenevano la
dominazione straniera comunque un minor male di fronte a un
possibile caos, dirà che si è trattato di una dolorosa
operazione di legittima difesa, di una repressione
inevitabile per scongiurare nuove stragi da parte di un
terrorismo suicida e senza sbocchi? Non aveva forse un tempo
lo stesso profeta Geremia sconsigliato atti di inutile
resistenza al conquistatore babilonese? Immagino che Gesù
si sarà sentito addosso la domanda che un giorno gli
rivolgeranno i Giudei nel tempio: "Fino a quando terrai
l'animo nostro sospeso? Se tu sei davvero il Cristo, dillo a
noi apertamente". Cioè, nel nostro caso: facci
sapere, tu che sai tutto, da che parte sta la verità e da
che parte sta l'ingiustizia.
Anche la seconda situazione narrata da Luca 13,1-5 richiama
domande attuali. Essa riguarda una calamità naturale, la
caduta di una torre a Gerusalemme che travolge diciotto
persone (noi pensiamo agli incidenti e drammi di questi
ultimi tempi: i disastri dei trafori del Monte Bianco e del
Gottardo, il tragico incidente di Linate, gli incidenti
aerei delle ultime settimane, le stragi per le fughe di
gas...). Allora, come ora, tali incidenti suscitavano tante
domande: si tratta di calamità inevitabili o sono frutto di
negligenza, di errore umano o di incoscienza o di imprudenze
inescusabili? Chi è colpevole? Chi doveva vigilare? Quale
autorità ha omesso i dovuti controlli, ha sottovalutato gli
appelli ecc.?
I due episodi sono proposti a Gesù perché prenda
posizione. Molti aspettano, come ho sopra indicato, che
egli si dichiari contro il tiranno Pilato; altri vorrebbero
che criticasse i Galilei come terroristi insipienti. A
proposito della caduta della torre ci si attende che denunci
con parole di fuoco l'incuria dei governanti o al contrario
rimproveri l'imprudenza colpevole della gente. Invece si
verifica l'imprevisto.
Gesù non prende posizione né pro, né contro nessuna delle
persone coinvolte, non si esprime su chi degli immediati
protagonisti sia da ritenersi colpevole. Proclama, è vero,
un suo giudizio, che dovremo approfondire. Ma la
sua voce sta al di sopra di tutti i temi sia pur gravi di
politica corrente.
Ciò può sorprendere, deludere e turbare. Vedremo che cosa
voglia dire per l'oggi. Notiamo tuttavia fin da ora che si
verifica qui quanto affermava un recente storico delle
origini cristiane: "In confronto ai profeti classici di
Israele, il Gesù storico è notevolmente silenzioso a
proposito di molte scottanti questioni sociali e politiche
del suo tempo… Il Gesù storico sovverte non solo alcune
ideologie, ma tutte le ideologie" (J.P. Meier, Un
ebreo marginale: Ripensare il Gesù storico,
Brescia 2001, p.189).
2.
Le domande di oggi
Qualcosa di simile avviene oggi. Gli interrogativi
sui fatti della storia e soprattutto su quelli drammatici
dei nostri giorni sono tanti e comprensibilmente carichi di
sofferte emozioni, di precomprensioni affettive e anche di
pregiudizi. E
non di rado si invocano da qualche autorità morale risposte
immediate e chiarificatrici ( per lo più nell'attesa di
essere confermati in ciò che ciascuno ha già giudicato
dentro di sé!).
Molte, in particolare, le interrogazioni gravi che si pone
l'uomo della strada di fronte alle notizie e alle immagini
televisive di questi mesi e di questi giorni.
La prima riguarda gli autori dei gesti di terrorismo,
a partire dai più clamorosi e micidiali, specialmente
quelli connessi col suicidio dell'attentatore, ed è la
domanda sul perché. Perché un essere umano può giungere a
tanta crudeltà e cecità? Ci si chiede in quali oscuri
meandri della coscienza possano albergare tali sentimenti di
odio, di fanatismo politico e religioso, quali risentimenti
personali e sensi di umiliazione collettiva possano essere
alla radice di simili folli decisioni. Nulla e nessuno potrà
mai giustificare tali atti o dare loro una qualunque
parvenza anche larvata di legittimazione.
Ci dobbiamo però
chiedere: noi tutti ci siamo davvero resi conto nel passato,
rispetto ad altre persone e popoli, quanto grandi ed
esplosivi potessero a poco a poco divenire i risentimenti e
quanto nei nostri comportamenti potesse contribuire e
contribuisse di fatto ad attizzare nel silenzio vampate di
ribellione e di odio?
Non posso, a proposito della prima domanda, non sottolineare
la tremenda responsabilità di chi, magari dotato di grandi
mezzi di fortuna, ha imparato a sfruttare i risentimenti e
li fornisce di strumenti di morte, finanziando, armando e
organizzando i terroristi in ogni parte del mondo, forse
pure vicino a noi. Anche per costoro non v'è nessuna
ragione o benché minima legittimazione per il loro agire.
Valgono piuttosto le parole di Gesù per chi sfrutta in tal
modo la debolezza di persone semplici: "Sarebbe meglio
per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da
un asino, e fosse gettato negli abissi del mare!" (Mt
18,1). E non posso nemmeno dimenticare quanto Gesù diceva
nel discorso della Montagna proibendo persino una parola
offensiva perché contenente già i germi dell'odio e
dell'omicidio (Mt 5,22: "Chi dice al fratello 'pazzo'!,
sarà sottoposto al fuoco della Geenna").
Chi di noi ha
l'età per ricordare i primi tempi della contestazione (fine
anni 60-inizio anni 70) sa che la noncuranza e la
leggerezza, ostentata anche da chi avrebbe avuto la
responsabilità di giudicare e di punire, rispetto ad atti
minori di vandalismo e disprezzo del bene pubblico, ha
aperto la via a gesti ben più gravi e mortiferi.
Chi getta
oggi il sasso e si sente impunito domani potrà buttare la
bomba o impugnare la pistola. La "tolleranza zero"
è, per ogni parola o gesto di odio, supportata da una
regola evangelica.
Oltre alla domanda di un giudizio umano e morale severo su
ogni anche piccola radice di disprezzo e di odio - da
qualunque parte provenga e contro chiunque si eserciti, per
smascherarla e in quanto possibile per esorcizzarla e
disarmarla - emerge con insistenza nel cuore della gente
anche una seconda domanda, di natura piuttosto politica e
militare:
il tipo di operazioni che si vanno facendo contro
il terrorismo sarà efficace?
Servirà davvero a scoraggiare
i terroristi, a chiudere gli episodi macabri degli
uomini-bomba, a creare le condizioni per un superamento
delle cause di tante inquietudini? Ben pochi di noi hanno
risposte certe e articolate a tutte queste questioni, anche
per la loro complessità e gli scenari e episodi diversi e
mutevoli a cui esse si riferiscono. Ciò non toglie che esse
gravino pesantemente sulle coscienze di tutti, in
particolare di coloro che sono più direttamente
responsabili di programmare le operazioni contro il
terrorismo, di determinare le misure politiche, economiche,
giudiziarie, culturali che si ritengono necessarie. Soltanto
loro conoscono da vicino le circostanze e l'efficacia,
positiva e negativa, dei bombardamenti e di altre azioni di
guerra, dato che gli stessi mass media non sembrano aver un
accesso se non limitato alle fonti dirette dei dati e delle
strategie militari. Anche a tale domanda non osiamo dare qui
una risposta; però è connessa strettamente con la
seguente.
La terza domanda è di tipo etico:
ciò che si è
fatto e si sta facendo contro il terrorismo specialmente a
livello bellico rimane nei limiti della legittima difesa, o
presenta la figura, almeno in alcuni casi, della ritorsione,
dell'eccesso di violenza, della vendetta?
È chiaro che il
diritto di legittima difesa non si può negare a nessuno,
neppure in nome di un principio evangelico. Occorre tuttavia
una
continua vigilanza,
un costante dominio su di sé e
delle passioni individuali e collettive per far sì che
nella necessaria azione di prevenzione e di giustizia non si
insinui la voluttà della rivalsa e la dismisura della
vendetta. Si era avuta l'impressione che questi principi di
cautela fossero presenti nei primi giorni della reazione ai
terribili attentati dell'11 settembre. Ma ora a che punto
siamo? Non hanno forse l'ansia di vittoria e il dinamismo
della violenza preso la mano diminuendo la soglia di
vigilanza sulle azioni di guerra che potrebbero essere non
strettamente necessarie rispetto agli obiettivi originari e
soprattutto colpire popolazioni inermi? È qui che il
principio della legittima difesa viene messo gravemente in
questione, poiché non si può impunemente andare oltre
senza creare più odi e conflitti di quanto non si pretenda
risolverne. Sembra questo in particolare il caso, è
doloroso dirlo, di quanto continua ad accadere in maniera
crescente in Medio Oriente. Da una parte un
terrorismo folle
e suicida contro cittadini pacifici, fra cui tanti bambini,
un terrorismo che non conduce a nulla e che suscita un
crescendo di ira, indignazione e orrore. Dall'altra
atti di rappresaglia, difficilmente definibili ancora come
operazioni di legittima difesa, che colpiscono popolazioni
inermi, e anche qui tanti bambini. Vi si aggiungono in più
vere e proprie azioni belliche, di fronte alle quali perfino
l'osservatore più imparziale e sinceramente desideroso e
convinto del bisogno di una piena sicurezza per il paese che
così agisce, non riesce a cogliere quale sia la strategia
della pace e della sicurezza che pure è sempre nel
desiderio di tutto quel popolo la cui sopravvivenza è
essenziale per il futuro della pace nella regione e nel
mondo intero.
Le tre domande sono nel cuore di tanta gente e su di esse vi
sarebbe tanto da discutere. In ogni caso, pur facendo
riferimento a elementi etici di estrema gravità, non sono
di competenza solo, e spesso neanche in prima istanza, della
Chiesa.
Non sta alla Chiesa dare l'ultimo giudizio pratico
su atti di cui soltanto pochi conoscono le modalità ultime
e precise.
Sollevando interrogativi come quelli espressi
sopra non ho voluto tanto esprimere giudizi definitivi
quanto aiutare me e voi a riflettere seriamente e
soprattutto stimolare i competenti e i responsabili a pesare
ogni loro opinione e azione su una bilancia di rigorosa
giustizia e di rispetto dei diritti umani di ognuno. Tali
responsabili veramente competenti non sono probabilmente
molti. Certamente assai meno di quanto non si pensi o non
appaia dal numero e dalla molteplicità delle opinioni che
vengono formulate, spesso con tanta sicurezza. Sono pochi
infatti a conoscere a fondo tutti i dati disponibili sui
terroristi, i loro progetti, le loro risorse; poche le
notizie che realmente filtrano sugli atti di guerra e le
loro conseguenze, la natura delle resistenze e gli ambiti
delle strategie. Le autorità politiche e militari
responsabili - me ne rendo conto - pagano qui una misura
ardua di solitudine a fronte di decisioni che coinvolgono la
vita di milioni di persone.
Perciò è tanto più prezioso il controllo democratico
stabile e metodico esercitato dai Parlamenti e da una
opinione pubblica intelligente e non faziosa, correttamente
informata prima sul varo e poi sulla conduzione degli
eventuali interventi.
3.
L'ATTEGGIAMENTO DI GESU'
A questo punto ci impressiona e ci scuote ancora di più
l'atteggiamento di Gesù nel brano di Luca, da cui siamo
partiti e al quale ora vorrei ritornare. C'è infatti
un'ulteriore domanda oltre a quelle richiamate a proposito
dei fatti attuali di terrorismo e di guerra. È una domanda
molto semplice, di natura evangelica. Suona così:
che cosa
ci direbbe oggi Gesù su quanto abbiamo evocato fin qui?
Che
cosa ci suggerirebbe nello spirito del Discorso della
Montagna, nel quadro delle beatitudini dei misericordiosi e
degli operatori di pace?
Nella pagina di Luca 13,1-5 Gesù non entra in nessuno dei
problemi che hanno in mente i suoi interlocutori e che
riguardavano l'attribuzione delle colpevolezze per gravi
fatti di sangue, la ricerca di capri espiatori.
Superando
ogni giudizio morale categoriale sulle azioni di singoli o
di gruppi, Gesù rimanda alla radice profonda di tutti
questi mali, cioè alla peccaminosità di tutti, alla
connivenza interiore di ciascuno con la violenza e il male,
ripetendo per ben due volte: "se non vi convertite,
perirete tutti allo stesso modo". Egli invita a cercare
in ciascuno di noi i segni della nostra complicità con
l'ingiustizia. Ammonisce a non limitarsi a sradicarla qui o
là, ma a cambiare scala di valori, a cambiare vita.
Ciò in un primo momento ci sorprende. Ci appare una fuga
dal presente, un volare troppo alto di fronte a eventi che
richiedono con urgenza decisioni e giudizi. Ci sembra un
generalizzare un problema che rischia di confondere torti e
ragioni, carnefici e vittime, tutti accomunati sotto un
unico denominatore.
Ma Gesù non intende per nulla togliere a ciascuno la sua
concreta responsabilità. Ognuno è responsabile delle
proprie azioni e ne porta le conseguenze. Per questo Gesù
disse a Pietro che tentava di difenderlo con la forza quando
vennero per arrestarlo: "Rimetti la spada nel fodero,
perché tutti quelli che metteranno mano alla spada
periranno di spada" (Mt 26,52). Egli sa che ciascuno
deve prendere le sue decisioni morali di fronte alle singole
situazioni.
Gli importa però assai di più segnalare che
gli sforzi umani di distruggere il male con la forza delle
armi non avranno mai un effetto duraturo se non si prenderà
seriamente coscienza di come le cause profonde del male
stanno dentro, nel cuore e nella vita di ogni persona,
etnia, gruppo, nazione, istituzione che è connivente con
l'ingiustizia.
Se non si mette mano a questi ambiti più
profondi mutando la nostra scala di valori, tra breve ci
ritroveremo di fronte a quei mali che abbiamo cercato con
ogni sforzo esteriore di eliminare.
È così che i Vescovi provenienti da tutto il mondo e
riuniti in Sinodo nel mese di ottobre 2001 hanno valutato la
situazione odierna. Cito dal messaggio finale: "La
nostra assemblea, in comunione con il santo Padre, ha
espresso
la più viva sofferenza per le vittime degli
attentati dell'11 settembre e per le loro famiglie.
Preghiamo per loro e per tutte le vittime del terrorismo nel
mondo.
Condanniamo in maniera assoluta il terrorismo, che
nulla può giustificare.
D'altronde non abbiamo potuto non
ascoltare, nel corso del Sinodo, l'eco di tanti altri drammi
collettivi... Secondo osservatori competenti dell'economia
mondiale, l'80% della popolazione del pianeta vive con il
20% delle sue risorse e un miliardo e duecento milioni di
persone sono costretti a vivere con meno di un dollaro al
giorno. Si impone un cambiamento di ordine morale" (nn.
9-10). E ancora i Vescovi elencano alcuni "mali
endemici, troppo a lungo sottovalutati, che possono portare
alla disperazione intere popolazioni. Come tacere di fronte
al dramma persistente della fame e della povertà estrema,
in un'epoca in cui l'umanità ha a disposizione come non mai
gli strumenti per un'equa condivisione? Non possiamo non
esprimere la nostra solidarietà con la massa dei rifugiati
e degli immigrati che, a causa di guerra, in conseguenza di
oppressione politica o di discriminazione economica, sono
costretti ad abbandonare la propria terra..." (n. 11).
Sono tanti i mali da deplorare e da sconfiggere:
oltre il
terrorismo e la violenza va condannata ogni ingiustizia e va
eliminato ogni affronto alla dignità umana.
Ci chiediamo:
sarà possibile una tale inversione di tendenza? Osiamo
affermare di sì, anzitutto perché
un simile raddrizzamento
della scala dei valori è necessario per il superamento di
quella conflittualità crescente che mira alla distruzione
reciproca dei contendenti. In secondo luogo perché contiamo
sulla grazia di Dio e sulla ragionevolezza di fondo
dell'uomo. In terzo luogo perché come cristiani
(e anche in
questo ci distinguiamo da un mondo Occidentale fino a poco
fa sicuro di sé ma ora molto più incerto e sempre più
povero di speranza trascendente)
abbiamo la certezza che se
il male abbonda è perché sovrabbondi la grazia della
conversione e del perdono.
Pur se lasciamo al Signore della
storia il calcolo dei tempi, sappiamo che è ben possibile
che maturi di nuovo in Occidente, forse proprio sotto la
spinta di eventi così drammatici, la percezione che è
necessario un cambio di vita, l'adozione di una nuova scala
di valori. In un articolo recente si parlava, a proposito di
tale riconoscimento, di "apocalisse", nel senso
etimologico di un "alzare il velo" di "una
rivelazione" (Enzo Bianchi, Le apocalissi dell'11
settembre, "la Repubblica" 27.10.01). Nel nostro
contesto si tratta di una rivelazione del male in cui siamo
immersi,
dell'assurdità di una società il cui dio è il
denaro, la cui legge è il successo e il cui tempo è
scandito dagli orari di apertura delle borse mondiali.
Una
società che giunge quasi al ridicolo nella sua ricerca
affannosa di investimenti virtuali, di transazioni puramente
mediatiche e che pretende di esportare messianicamente
questo modo di vedere in tutto il mondo. Tale
globalizzazione è giusto rifiutare. Come ha scritto
recentemente Tommaso Padoa Schioppa "la strada che
porta alla sicurezza è assai più lunga di quella che ha
portato a Kabul. La strada è anche assai più faticosa,
perché su di essa siamo noi a dover camminare, non militari
o Paesi lontani. E camminare vuol dire modificare nostri
modi di vivere, nostri pensieri, nostri sistemi politici.
Possiamo chiederci: abbiamo incominciato?" (Corriere
della Sera, 18.11.01). Ma se ciò vale per l'economia e la
politica, perché non dovrebbero aprirsi anche nel campo
della moralità nuovi spazi per un rinnovato impegno di
serietà e di giustizia, per una ricerca del significato
profondo della vita, per una maggiore apertura sul mistero
di Dio? Non ha forse Dio "rinchiuso tutti nella
disobbedienza" di conflitti senza via di uscita
"per usare a tutti misericordia?" (cfr Rom 11,32).
Non è così importante sapere se ciò si avvererà presto.
In fondo, come diceva Bonhoeffer, "per chi è
responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo
eroicamente in questo affare, ma:
quale potrà essere la
vita per la generazione che viene?
Solo da questa domanda
storicamente responsabile possono nascere soluzioni
feconde" (Resistenza e Resa, Milano, p. 64). Ciò che
dunque urge è dirci che
se non avviene un cambio radicale
nella scala dei valori,
se non vengono messi al primo posto
la pace, la solidarietà, la mutua convivenza, l'accoglienza
reciproca, l'ascolto e la stima dell'altro, l'accettazione,
il perdono, la riconciliazione delle differenze, il dialogo
fraterno e quello politico e diplomatico, mentre vengono
contemporaneamente messe al bando le rappresaglie della
guerra, se non vengono disarmate non solo le mani ma anche
le coscienze e i cuori,
noi avremo sempre a che fare con
nuove forme di violenza e anche di terrorismo.
Riusciremo
magari a spegnerle per un momento, ma per vederle poi
risorgere impietosamente altrove.
Come ha ripetuto il 4 dicembre 2001 il Papa a proposito del
conflitto in Medio Oriente:
"La violenza non risolve
mai i conflitti, ma soltanto ne accresce le drammatiche
conseguenze".
Ha perciò lanciato "un nuovo
pressante appello alla comunità internazionale, affinché
con sempre maggiore determinazione e coraggio aiuti
israeliani e palestinesi a spezzare questa inutile spirale
di morte. Siano ripresi immediatamente i negoziati, perché
si possa giungere finalmente alla tanto desiderata
pace". Inoltre il Papa ha stimolato, con un gesto
assolutamente nuovo nella storia del rapporto
Cristianesimo-Islam, tutti i cattolici a unirsi
spiritualmente il
14 dicembre
prossimo alla conclusione del
solenne digiuno
musulmano del Ramadan, per proclamare che c'è
e ci deve essere un clima di rispetto tra le due religioni.
Di qui avrà inizio un particolare tempo di conversione, di
ritorno al Signore nel cammino faticoso della storia verso
la pienezza della verità e della carità, che culminerà il
24 gennaio 2002
in una grande preghiera interreligiosa per
la pace ad
Assisi
con la partecipazione del Papa.
Sono gesti
che intendono proclamare a tutto il mondo che mai per nessun
motivo le religioni devono divenire fonte di conflitto, ma
al contrario occasione e strumento di pace.
4.
APERTURE NUOVE
Devo avviarmi a concludere il mio discorso, che
inevitabilmente rischia di coinvolgerci in sempre nuove
direzioni, perché la violenza e il male sono dappertutto e
stanno alla radice di tutto. Ma il bene zampilla da una
sorgente ancora più profonda e innaffia, risana e rigenera
continuamente questa radice di male e di amarezza. È
importante allora riconoscere che dobbiamo fare ciascuno la
nostra parte e ascoltare l'appello che ci raggiunge.
Il
momento drammatico che stiamo vivendo è un forte richiamo
alla conversione e al riconoscimento della nostra connivenza
con i mali del mondo.
Sottolineo: con i mali di tutti, sotto
ogni latitudine e non del solo mondo occidentale. Certamente
esso ha i suoi gravissimi torti, le sue cecità, i suoi
idoli, i suoi deliri di onnipotenza. Per questo la Chiesa,
neppure quella Occidentale, che ha vissuto storicamente e
tuttora vive in questo ambito e si è sempre sforzata di
dargli un'anima, non si è mai riconosciuta né identificata
del tutto con esso né tanto meno si identifica ora in un
ambito nel quale gloriose tradizioni di libertà e dignità
umana convivono - in un clima crescente di compromissione -
con un individualismo senza regole, con il culto del denaro,
del successo, dell'immagine e della potenza. Pur con tutto
ciò
non dobbiamo ritenere che sia solo il nostro mondo
occidentale quello chiamato da Gesù a cambiar vita. Il
Signore afferma due volte, nel testo di Luca da cui siamo
partiti (13,3.5): "se non cambierete vita, perirete
tutti!".
La follia dell'autodistruzione, che assume
nelle odierne culture innumerevoli forme, minaccia tutti
quanti.
Gli spettri della corruzione, del malgoverno, del
prevalere dell'interesse privato e tribale su quello
pubblico, della dittatura e del primato della forza e delle
armi, stanno succhiando il sangue di innumerevoli poveri
della terra. Sarebbe troppo facile trovare un solo capro
espiatorio e una sola vittima. Zizzania e buon grano sono
intrecciati profondamente in ogni angolo del pianeta.
Gesù
sa che il male è nascosto nel cuore di ogni uomo e di ogni
cultura, sa che siamo "generazione incredula e
perversa"
(Mt 17,17).
Dobbiamo in altre parole renderci conto che di certe pesti
che ammorbano il mondo (e di cui i conflitti bellici e gli
attentati sono una delle manifestazioni) non è soltanto
colpevole l'uno o l'altro individuo o popolo lontano da noi
o vicino a noi, ma ne siamo tutti in qualche modo, ciascuno
per la sua parte, conniventi e corresponsabili.
Se, spinti da eventi tragici che mai avremmo voluto neppure
immaginare, l'invito di Gesù a cambiare scala di valori e
criteri di giudizio cominciasse a venire accolto, ne
emergerebbe una società più pensosa, una gioventù meno
dissipata e meno avida di divertimenti, conscia delle
proprie responsabilità per il futuro del pianeta; pronta
anche ad ascoltare il richiamo per aprirsi a esistenze
consacrate al servizio totale di Dio e del prossimo. E di
tutto questo inizio di cammino positivo noi, grazie a Dio,
siamo anche i gioiosi testimoni, per poco che sappiamo
guardarci intorno con gli occhi della speranza.
5.
IL GRANDE BENE DELLA PACE
Non potrei concludere il mio discorso senza ritornare a
quella che ne fu l'ispirazione principale fin dall'inizio,
cioè
il grande bene della
pace:
se abbiamo infatti
cominciato con l'ascoltare Gesù che parlava della violenza
(Lc 13,1-5), era solo perché a Lui - e oggi alla sua Chiesa
- una cosa sta sommamente a cuore: la pace!
Infatti la pace è il più grande bene umano, perché è la
somma di tutti i beni messianici.
Come la pace è sintesi e
simbolo di tutti i beni, così la guerra è sintesi e
simbolo di tutti i mali.
Non si può mai volere la guerra
per se stessa, perché è sistematica violazione di
sostanziali diritti umani. Vi saranno al limite casi di
legittima difesa di beni irrinunciabili. Però il contrasto
all'azione ingiusta, non di rado doveroso e meritorio, deve
restare nei limiti strettamente necessari per difendersi
efficacemente. Potranno anche essere necessarie coraggiose
azioni di "ingerenza umanitaria" e interventi
volti alla restituzione e al mantenimento della pace in
situazioni a gravissimo rischio. Ma non saranno ancora la
pace.
Pace non è solo assenza di conflitto, cessazione delle
ostilità, armistizio. Non è neppure soltanto la rimozione
di parole e gesti offensivi (Mt 5,21-24), neppure solo
perdono e rinuncia alla vendetta, o saper cedere pur di non
entrare in lite (cfr Mt 5,38-47).
Pace è frutto di alleanze
durature e sincere, (enduring covenants e non solo enduring
freedom),
a partire dall'Alleanza che Dio fa in Cristo
perdonando l'uomo, riabilitandolo e dandogli se stesso come
partner di amicizia e di dialogo, in vista dell'unità di
tutti coloro che Egli ama. In virtù di questa unità e di
questa alleanza ciascuno vede nell'altro anzitutto uno
simile a sé, come lui amato e perdonato, e se è cristiano
legge nel suo volto il riflesso della gloria di Cristo e lo
splendore della Trinità. Può dire al fratello: tu sei
sommamente importante per me, ciò che è mio è tuo. Ti amo
più di me stesso, le tue cose mi importano più delle mie.
E poiché mi importa sommamente il bene tuo, mi importa il
bene di tutti, il bene dell'umanità nuova:
non più solo il
bene della famiglia, del clan, della tribù, della razza,
dell'etnia, del movimento, del partito, della nazione, ma il
bene dell'umanità intera: questa è la pace.
Ogni azione contro questo "bene comune", questo
"interesse generale" affonda le radici nella
paura, nell'invidia e nella diffidenza. Genera i conflitti e
nutre gli odi che causano le guerre. Ci vorrà una intera
storia e superstoria di grazia per compiere tale cammino. Ma
è questa la pace che è mèta della vicenda umana.
6.
ALCUNI IMPERATIVI IMMEDIATI
1.
Abbiamo anzitutto un grande bisogno di percepire dentro di
noi una fontana zampillante di pace
che ci apra alla fiducia
nella possibilità di passi concreti e semplici verso un
cambiamento di stile di vita e di criteri di giudizio, unica
via a un cammino serio di pace. Evitiamo di lasciarci
intorpidire da un clima consumistico prenatalizio che
rischia di farci rimuovere le domande serie emerse da questi
fatti drammatici.
2.
Per evitare di essere trascinati, magari non
intenzionalmente, in uno scontro di civiltà, occorrerà
esercitarsi nell'arte del dialogo,
che parte da una chiara
coscienza della propria identità e della ricchezza dei
linguaggi con cui esprimerla e renderla accessibile
smontando i pregiudizi, i cavilli e le false comprensioni.
3.
Per questo sarà importante imparare a conoscere le altre
religioni,
in particolare l'Ebraismo e l'Islam, scrutando di
ciascuna la storia, la letteratura, le ricchezze spirituali,
le profondità mistiche, il pluralismo espressivo, anche
quello sociale e politico.
4.
Soprattutto
occorrerà educare a gesti, pensieri e parole di
perdono, di comprensione e di pace, usando tolleranza zero
per ogni azione che esprima sentimenti di xenofobia, di
antisemitismo, di minor rispetto di qualunque sentimento e
tradizione religiosa. Questo richiede che anche gli altri
rispettino e apprezzino quei segni religiosi che sono stati
e sono tuttora per noi la via e il simbolo che ci permette
oggi di offrire a tutti ospitalità e pace.
5.
È superfluo ricordare quanto la scuola e l'università
siano chiamate a educare al dialogo, al confronto sereno,
per aiutare a riflettere motivatamente sui gravi problemi in
discussione a livello internazionale ma anche nazionale e
regionale (e non soltanto perciò sui temi della pace e
della guerra, ma anche oggi su temi per noi gravi e urgenti
come la giustizia e la sanità). Grande sarà in questo
senso il compito e la responsabilità dell'autonomia
scolastica.
Ci conforta e ci fa ben sperare l'anniversario che si
ricorderà domani, quello dell'apertura, 80 anni fa, proprio
a pochi metri da questa Basilica di sant'Ambrogio, in via
Sant'Agnese, dei corsi della neonata Università Cattolica
del Sacro Cuore. Incominciò con 68 iscritti. Oggi sono
oltre 40.000. Auguriamo a essi e a tutti i giovani del mondo
di essere, per il millennio che inizia, come le
"sentinelle del mattino" che annunciano il giorno
della tanto desiderata pace.
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