Cuba

Ma come si fa a Cuba a  sapere quel che giusto e quel che è ingiusto?

 Castro si conferma “progressista”:
dure condanne per 80 oppositori

Il gulag caraibico.
 

 
di Valerio Riva


Si può parlare di Fidel, mentre Saddam, morto o vivo, tiene ancora la scena? Sì, se non altro perché li unisce la graduatoria di Forbes dei politici più ricchi del mondo: Saddam al terzo posto, Fidel all'ottavo. Ma non solo per questo. Forse Saddam Hussein non farà più in tempo a godersi le ricchezze accumulate, ma è certo che Fidel Castro comincia a rendersi conto che quel che sta capitando al suo socio iracheno mette a repentaglio anche il godimento delle sue.

È questa paura infatti che ha convinto Fidel Castro a compiere un gesto apparentemente così impolitico come far arrestare (in una sola maxiretata, neanche si trattasse dei boss di un rione palermitano) ottanta inermi intellettuali dissidenti e sottoporne settanta a processi “rapidissimi”, condannandoli a pene del tutto sproporzionate (a uno, Mario Enrique Mayo, vent'anni per avere semplicemente navigato su internet!).

L'Internazionale socialista sostiene che Fidel ha “approfittato del fatto che l’attenzione pubblica era concentrata sull’Irak”. Ma non è plausibile: non si arrestano 80 persone in una notte, in varie città dell’isola, sperando che la cosa passi sotto silenzio. Persone note all'estero, perché sono giornalisti che scrivono su importanti giornali di tutto il mondo o difensori dei diritti umani affiliati a organizzazioni internazionali; non si istruiscono maxiprocessi in 48 ore, tutti con gli stessi capi d'accusa; non si chiudono teatralmente le porte dei tribunali, lasciando la stampa estera accalcarsi fuori nella speranza di saper qualcosa dai pochi stretti familiari ammessi a presenziare ai dibattimenti. C’è modo più sicuro per scatenare il massimo dell'attenzione? Evidentemente no.

Ma c'è dell'altro: in tutti i processi si sono avuti quelli che a Cuba si chiamano dei destapes: cioè testimoni che sono venuti alla sbarra a dichiarare, di sorpresa, di essere degli informatori messi dalla polizia da lungo tempo alle costole degli accusati. Accusati che fino al momento del processo assolutamente ignoravano di avere delle spie per casa. E che spie! Cugini, fratelli, strettissimi collaboratori. L'economista sessantenne Martha Beatriz Roque - dovrà scontare vent'anni di carcere - ha scoperto solo in tribunale che la sua più fidata segretaria era da anni una spia della Seguridad. La casa del poeta Raul Rivero - anche a lui vent'anni - era frequentata da tempo da una coppia di intimi amici, che  in tribunale si sono rivelati come informatori della polizia, lasciando di stucco la moglie del poeta. Non si mette in piedi un così complicato sistema di intelligence in pochi giorni.

Ma la prova che si è trattato di un vero e proprio piano  è la richiesta fatta dalla Procura cubana contro José Daniel Ferrer Garcìa: la pena di morte! Da anni a  Cuba non si chiedeva la pena di morte, se non in caso di efferata criminalità. Nel caso di Ferrer Garcìa il procuratore ha specificato: pena di morte per fucilazione. Evocando nell'opinione pubblica il sinistro ricordo del i paredòn che ha caratterizzato i periodi più cupi della dittatura castrista. Perché tanta insolita severità?

Perché Ferrer Garcìa stato uno dei più attivi collaboratori del leader democristiano Oswaldo Payà, il propugnatore del cosiddetto «Progetto Varela». La costituzione castrista prevede la possibilità di indire dei referendum di iniziativa popolare, a patto che vengano raccolte almeno diecimila firme, tutte accertate da un notaio. Quando mai, deve aver pensato Castro, sarebbe stato possibile in un Paese supercontrollato   come Cuba raggiungere un tale traguardo? E invece Payà c'è riuscito. Dopodiché, la fama internazionale di Payà è stata tale che Castro ha addirittura pensato in un primo momento di sfruttarla a proprio vantaggio: e gli ha consentito di fare un lungo giro di conferenze in Europa e negli Stati Uniti. A Bruxelles, Payà è stato insignito  dalla Comunità Europea del Premio Sacharov. Ma mentre Payà girava il mondo, a Cuba era rimasto l’oscuro artefice di quel successo, Ferrer Garcìa. Al suo straordinario impegno di organizzatore, Payà deve se in pochi mesi sono state raccolte 30mila firme, se per 11.200 firme si sono trovati i notai disposti ad autenticarle. E poi? E poi, al momento opportuno, ecco qua: Payà è libero a Cuba e Ferrer Garcìa è spedito al paredòn.

Un'ingiustizia? Ma come si fa a Cuba a  sapere quel che giusto e quel che è ingiusto?

Sicuramente una lezione per altri possibili Payà. E qui arriviamo alla vera ragione di questa maxiretata di oppositori. Castro non ha affatto contato sulla disattenzione dell'opinione pubblica. Bensì (tipico di lui) ha aspettato di vedere come la faccenda Irak si metteva. E appena ha visto che gli Americani stavano per arrivare a Bagdad, ha fatto scattare la sua tagliola. Fidel sa bene qual è il momento in cui una guerra è vinta. E ha capito subito che gli americani avevano vinto. Ben prima di molti sussiegosi analisti occidentali. E si è giustamente sentito in pericolo. Non a caso. Per molti mesi aveva tessuto la sua ultima trama. Suo strumento è stato il venezuelano Chavez, che non muove foglia che Castro non voglia. Venezuela vuol dire petrolio: è il maggior fornitore di  petrolio degli Stati Uniti. Una pedina chiave sullo scacchiere caraibico.  Quando il lungo sciopero dei dirigenti e impiegati della Società venezuelana del petrolio, bloccando le forniture di carburante, ha messo in forse la permanenza del golpista Chavez al potere, è arrivato l’astuto castro.

Ha convinto Gheddafi e Saddam Hussein a mandare a Caracas dei loro specialisti capaci di rimettere in funzione gli impianti venezuelani, sostituendo i tecnici e i dipendenti locali. Per sostenere con le armi questo vero e proprio golpe bianco, ha fatto affluire dalla vicina Colombia i guerriglieri delle Farc, l'ultima guerriglia al mondo diretta da un partito comunista della vecchia Internazionale (e annosi alleati di Castro nel traffico di droga). Se la guerra in Irak  non ci fosse stata o peggio ancora se  Bush l’avesse persa, la cosa era fatta: Castro aveva in mano la carta buona per trattare da parta pari con gli Stati Uniti. Ma disgraziatamente per lui, Bush la guerra non solo l'ha fatta davvero, ma l'ha anche vinta. E Castro ha capito: adesso tocca a me. Ed ecco allora la maxiretata. Non tanto per spazzar via in un solo colpo la fragile opposizione interna cubana, ma per avere in mano un'altra pedina per il ricatto. Vedrete quel che succederà. Fra qualche giorno o qualche settimana, Castro aprirà di colpo le frontiere: chi se ne vuole andare, vada via. E tutti quelli (e sono molti) che si sentiranno probabili obiettivi di altre maxiretate del genere si precipiteranno a fuggire con ogni mezzo verso la vicina Florida. Decine, forse centinaia di migliaia di sventurati. Un'ondata immigratoria che gli Stati Uniti non saranno preparati a ricevere.
 

 

Cuba: «Castro si conferma “progressista”: dure condanne per 80 oppositori. Il gulag caraibico», di Valerio Riva, Il Giornale, 12 aprile 2003

 

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