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di Antonio Socci
Forse, oltre ad astenersi dal
matrimonio, gli ecclesiastici dovrebbero astenersi anche dalle interviste.
Per non confondere il Verbo con le chiacchiere.
L’altroieri per esempio il cardinale Claudio Hummes ha rilasciato
dichiarazioni che sono parse esplosive sul tema del matrimonio dei preti.
Non potevano passare inosservate perché Hummes in queste ore sta arrivando a
Roma chiamato dal Papa proprio come “ministro” per il clero.
Ecco cos’ha detto il cardinale: “Anche se i celibi fanno parte della storia
e della cultura cattoliche, la Chiesa può riflettere sulla questione del
celibato perché non è un dogma, ma una norma disciplinare”.
Di per sé ha ragione chi ha notato che non c’è niente di nuovo, perché di
certo il celibato ecclesiastico non è un dogma di fede. Ma è evidente che
annunciare oggi una possibile revisione, mentre Hummes si appresta a guidare
la Congregazione del clero e mentre si intensificano gli attacchi a questo
istituto, significa indurre i giornali a titolare: “Il Vaticano apre sui
preti sposati”.
Se il cardinale avesse inteso dire questo sarebbe andato contro il Papa e la
Chiesa: appena venti giorni fa Benedetto XVI ha riunito i capi dei dicasteri
romani ribadendo il “valore della scelta del celibato sacerdotale secondo la
tradizione cattolica”. Ovvia e prevedibile dunque la sua correzione di ieri.
Tuttavia dichiarazioni avventate come le sue alimentano la confusione nella
Chiesa. E c’è una parte del suo ragionamento che, essendo molto diffuso,
merita di essere discusso e confutato.
La prima dichiarazione di Hummes sembra ridurre tutto a una banale “norma
disciplinare” che, come tale, può anche essere ribaltata. La stessa
posizione dei “catto-progressisti” che vogliono la resa della Chiesa davanti
al mondo e il rinnegamento della tradizione.
Infatti ieri Pietro Scoppola – per dirne uno - dichiarava al Corriere della
sera: “il celibato ecclesiastico è solo una norma di diritto canonico, una
scelta della tradizione, non fondata teologicamente. Mi sembra importante
che oggi davanti alla crisi della vocazioni si possa pensare a scelte
diverse aperte alle nuove esigenze”.
In poche righe troviamo una summa dei luoghi comuni circolanti sulla
materia. Solo che questo luogocomunismo è infondato.
Intanto perché la cosiddetta “crisi delle vocazioni” e la secolarizzazione
attanagliano anche (e di più) le confessioni protestanti e le chiese
ortodosse che pure non hanno il celibato ecclesiastico.
In secondo luogo perché i fatti (anche le statistiche recenti) dimostrano
che nella stessa Chiesa Cattolica stanno aumentando le vocazioni più
rigoriste, come quelle di clausura, mentre calano ancora le vocazioni
secolari dove più si è concesso al mondo e all’attivismo sociale.
Le vocazioni infatti – per la Chiesa – derivano dalla grazia di Dio e non
certo da uno studio sociologico con conseguente pacchetto-regalo che elabora
qualche offerta speciale: tonaca e moglie, due al prezzo di uno.
Ma infine è proprio vero che il celibato ecclesiastico è solo “una norma di
diritto canonico” o – come dice Hummes – una “norma disciplinare” che come
tale si può tranquillamente ribaltare?
No. Non è vero. La Chiesa Cattolica, nella sua lunga tradizione, è andata
maturando una dottrina opposta. Lo ha spiegato molto bene il cardinale
Alfonso Stickler nell’opera “Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i
suoi fondamenti teologici”.
Stickler lavorò come perito al Concilio Vaticano II e all’elaborazione del
nuovo Codice di diritto canonico. E’ stato Rettore dell’Università salesiana
e vicepresidente del Bureau dell’Associazione Internazionale di Storia del
Diritto e delle Istituzioni.
Creato cardinale nel 1985 da Giovanni Paolo II, Stickler ha dimostrato – nei
suoi studi – che non è possibile capire le istituzioni della Chiesa senza
comprendere le basi teologiche che le originano. Anche sul celibato
ecclesiastico.
La vulgata corrente, superficiale e sbagliata, è quella ripetuta ieri da
Franco Cardini (ormai approdato alla comoda riva del pensiero dominante)
secondo cui: “il celibato dei preti risale solo alla seconda metà dell’XI
secolo. Prima i sacerdoti si sposavano”.
In pratica, per costoro, si potrebbe fare una storia di come fu introdotta
la legge del celibato ecclesiastico in Occidente. Ma questo non è vero, come
si dimostra nel noto Wörterbuch der Kirchengeschichte, a cura di Carl
Andresen e di Georg Denzler (Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco di Baviera
1982).
Al contrario si può scrivere la storia della decisione inversa presa dalla
Chiesa Orientale.
Stickler, in sintesi, spiega che non conosciamo nessuna decisione
ecclesiastica che abbia introdotto come innovazione il celibato, il quale
risale invece a una ininterrotta tradizione non scritta, a una consuetudine
di origine apostolica, probabilmente addirittura divina.
E’ vero infatti che lo stesso S. Pietro era sposato, ma si era sposato prima
della chiamata di Gesù e – spiega Stickler - la legge del celibato
ecclesiastico consiste nell’obbligo della “continenza da ogni uso del
matrimonio dopo l’ordinazione”.
Che poi è diventata la norma del celibato perché “l’origine di ogni
ordinamento giuridico consiste nelle tradizioni orali e nella trasmissione
di norme consuetudinarie le quali soltanto lentamente ricevono una forma
fissata per iscritto”.
Risalendo alle origini troviamo anche le ragioni teologiche del celibato.
Perché nel Nuovo Testamento il sacerdote non è più un uomo che svolge un
servizio religioso, ma una persona che interamente si dona per amore, come
Cristo alla sua Chiesa. E che da Cristo riceve prerogative e poteri divini.
Stickler indica come essenziale e definitiva l’esortazione apostolica
post-sinodale “Pastores dabo vobis”, del 25 marzo 1992, che definisce la
“Magna Charta della teologia del sacerdozio che rimarrà norma autorevole per
tutto l’avvenire della Chiesa”.
In essa si afferma: “È particolarmente importante che il sacerdote comprenda
la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato”. E si
aggiunge: “l’Ordinazione sacra configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e
Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata
dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo
l’ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo
alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il
Signore”.
Ci sono anche ragioni pratiche e sociali che motivano il celibato
ecclesiastico, ma la ragione di fondo è teologica e non può essere degradata
a semplice “norma disciplinare”.
Ma perché l’attacco mondano alla Chiesa su questo punto trova tali appoggi
nel mondo ecclesiastico?
Anni fa, da cardinale, Joseph Ratzinger colse il dramma del momento
presente: “Il prete, cioè colui attraverso il quale passa la forza del
Signore, è sempre stato tentato di abituarsi alla grandezza, di farne una
routine. Oggi la grandezza del Sacro potrebbe avvertirla come un peso,
desiderare (magari inconsciamente) di liberarsene, abbassando il Mistero
alla sua statura, piuttosto che abbandonarvisi con umiltà, ma con fiducia
per farsi elevare a quell'altezza”.
Ecco perché, giustamente, padre Livio Fanzaga, dai microfoni di Radio Maria,
nella sua ascoltatissima rassegna stampa del mattino, ha commentato il “caso
Hummes” così: “Il problema non è la moglie, ma la fede”. Questo è il cuore
del problema per la Chiesa di oggi.
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