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Giorgio Vittadini
Presidente
di Fondazione per la Sussidiarietà
Molti
commentatori hanno evidenziato come nella vicenda di New Orleans torni alla
luce l'irrisolto problema sociale dell'America. Colpisce, infatti, non solo
il numero dei morti, ma il fatto che molti, soprattutto tra gli
afro-americani, non abbiano pensato a mettersi in salvo, probabilmente
ignari degli appelli del presidente e degli stessi mass-media. È il limite
di una mentalità calvinista (e ormai nichilista) che tende a sopraffare
l'originale anelito dell'America alla libertà per tutti. Così, mentre
permette nei fatti a non pochi capaci e meritevoli di migliorare la propria
condizione, poco si cura di chi "non riesce" ed è destinato a un futuro
incerto e all'emarginazione sociale.
Tuttavia, colpisce certo anti-americanismo con cui la vicenda è stata
trattata da molti che riducono il tutto a una questione politica e si
occupano semplicemente di individuare un "colpevole". Senza arrivare agli
eccessi deliranti di al-Qaeda, che parla di vendetta divina, si finisce per
dire che l'America "se l'è cercata". Si attribuisce automaticamente quanto
accaduto all'effetto serra determinato dalla mancata adesione al Protocollo
di Kyoto; alla guerra in Iraq, che ha sguarnito di risorse l'America; al
disinteresse razzista verso zone popolate prevalentemente da afro-americani.
Cosa dimenticano queste livorose affermazioni?
Ce lo indicano le pacate e semplici parole del Papa, purtroppo quasi uniche,
nella loro attenzione all'umano: "In questi giorni siamo tutti addolorati
per il disastro provocato da un uragano negli Stati Uniti d'America,
specialmente a New Orleans. Desidero assicurare la mia preghiera per i
defunti ed i loro familiari, per i feriti e i senzatetto, per gli ammalati,
i bambini, gli anziani; benedico quanti sono impegnati nella difficile opera
di soccorso e di ricostruzione. Al presidente del Pontificio Consiglio Cor
Unum, l'arcivescovo Paul Josef Cordes, ho dato incarico di recare alle
popolazioni colpite la testimonianza della mia solidarietà".
Il dolore come primo sentimento di fronte alla morte nasce da chi, senza
dimenticare i temi sociali, ha presente anzitutto la condizione umana.
Quando l'uomo è veramente se stesso, e quando percepisce il suo senso
religioso senza per questo diventare ideologico, allora scopre la sua
originale dipendenza, il suo non essere onnipotente, il suo essere in balia
di catastrofi naturali, di malattie, di errori e di malvagità che lui stesso
può compiere, come dimostrano i saccheggi e la violenza seguiti alla
catastrofe.
Proprio questa percezione del limite lo rende cosciente di aver bisogno di
una liberazione che non può derivare da un progetto solo umano. Così, non
risulta irragionevole che la nostra tradizione nasca dall'annuncio di
Qualcuno che, come oggi il Papa, non cerca di spiegare il male o di trovare
il colpevole, ma prega e invoca il Padre, per vincere questo male e ridare
speranza. Perché nessuno di quelli che è morto è perduto, perché il dolore
di chi rimane può avere un senso, se vissuto con dignità umana e fede,
arrivando anche ad essere la premessa di un cambiamento sociale. E' già
avvenuto per chi ha fondato l'America con un desiderio di libertà mai sopito
o cancellato dai molti errori e per gli schiavi afro-americani che hanno
cantato negli spirituals l'Infinito presente, ponendo le premesse per una
società più giusta.
Annunciare di nuovo, di fronte a questa tragedia, la speranza cristiana e
l'amore ad ogni uomo, qualunque sia la sua pelle e il suo ceto, significa
alimentare il desiderio di una vera condivisone, di una carità sincera, di
una voglia di ricostruzione con più giustizia sociale e più intelligenza. E'
ciò che si fa di meno, ma che serve di più per ricominciare, valorizzando la
positività americana e portandola a compimento.
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