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di Umberto Di
Stilo
Ci
sono tradizioni, riti, consuetudini che, scomparsi sotto
l’incalzare del progresso socioeconomico, sopravvivono nei
piccoli paesi dell’interno o, più spesso, solo nel
ricordo degli anziani ai quali, quasi per un appagamento
dello spirito, piace andare a ritroso nel tempo non solo per
ricordare ma spesso anche per rivivere quei momenti che,
legati alla loro infanzia o alla loro gioventù,
caratterizzavano le ricorrenze festive della civiltà
contadina.
“ ’U
cumbitu” (il
convito) o, come era chiamato nel catanzarese, “’U
banchettu”,
caratterizzava la ricorrenza festiva di San Giuseppe perché
costituiva la differenza con la misera quotidianità
della stragrande maggioranza dei cittadini. La festa era
attesa da tutti, nella segreta speranza che essa, almeno per
un giorno, potesse eliminare il più possibile la differenza
da sempre esistente tra la classe dominante e la classe
subalterna, tra padroni e coloni, tra signori e pezzenti. In
una parola: tra i pochissimi ed invidiatissimi ricchi e la
quasi totalità dei cittadini la cui condizione economica
era veramente misera.
In ogni caso la festa, in quanto tale, doveva liberare dalla
fame, sia in senso reale (nei giorni di festa anche se non
si mangia di più, i cibi stessi si caricano di significati
simbolici e di valori rituali), sia in senso metaforico.
Una volta, dunque, giorno di San Giuseppe, in quasi tutte le
famiglie dei proprietari terrieri, spesso per sciogliere
qualche “ex voto” ma anche come rito propiziatorio per
un abbondante raccolto agricolo, si organizzava il “convito”
(o "Tavolata") al quale erano chiamate a
partecipare le persone più povere del paese o del rione,
tre delle quali dovevano idealmente impersonare la Sacra
Famiglia, ossia Gesù Bambino, la Madonna e San Giuseppe.
Qualche volta, però i personaggi diventavano cinque, giacché
alla sacra famiglia vera e propria venivano aggiunti anche i
personaggi di San Gioacchino e di Sant’Anna, genitori
della Madonna. Chi non aveva da impersonare alcun
personaggio si limitava ad essere se stesso, povero tra i
poveri ed i diseredati che hanno sempre fatto corona a Gesù.
Per questi ospiti importanti ed attesi la padrona di casa
imbandiva la tavola e preparava un pranzo composto da un
abbondante primo piatto a base di pasta e ceci, (la pasta
era quella fatta in casa: “i
maccarruna”
o "i
tagghiareji")
un secondo a base di baccalà fritto in padella
(più raramente stocco) e zeppole. Tre di queste
-proprio tre, come i componenti la Sacra Famiglia e
le persone della SS. Trinità- ognuno dei commensali doveva
obbligatoriamente portarle a casa. Le zeppole servivano a
completare il pasto del “cumbitu” con un richiamo alla Natività che, essendo
simbolicamente presente nei suoi tre personaggi principali
anche al banchetto del 19 marzo, sarebbe stata una vera
mancanza di sensibilità, e quindi un peccato, non
prepararle trascurando che in abbondanza fossero presenti
sulla tavola. Ultimato il pranzo ai commensali-protagonisti,
oltre alle tre zeppole, veniva consegnata una scodella piena
di cibo che, ben avvolta in un tovagliolo, dovevano portare
a casa per farlo mangiare a tutti i loro familiari che,
quasi sempre, aspettavano ansiosi il saporito piatto di
pasta e ceci ed il pezzetto di baccalà rosolato
nell’olio.
Una volta, inoltre, quando in tutti i paesi della Calabria i
poveri ed i bisognosi rappresentavano la stragrande
maggioranza della popolazione, giorno di San Giuseppe, i
mendicanti, spesso scalzi e laceri, giravano numerosi per le
vie del paese, si fermavano sull’uscio delle case e, col
viso nascosto per non essere riconosciuti, tendevano la mano
e chiedevano un po' di cibo a tutte quelle persone che in
genere si trovavano in una discreta condizione economica o
che, comunque,
proprio nel giorno dedicato alla festività del
vecchio falegname di Nazareth,
rispettando la tradizione, avrebbero preparato i
pasti per tutte quelle persone che si sarebbero fatte
avanti, pur senza doversi mortificare ed umiliare.
Gli elemosinanti solitamente ricevevano “
’a vuccata ’i San
Giuseppi”
(il boccone di San Giuseppe) costituita da una minestra
calda (pasta e ceci, tre zeppole e il baccalà fritto) non
di rado accompagnata da un pugno di fichi secchi.
Così, anche i più poveri, avevano la possibilità di
constatare personalmente la “diversità” del giorno e di
partecipare in maniera diretta alla festa. Perchè -è il
caso di ribadirlo- fino ad alcuni decenni addietro, per la
classe subalterna calabrese, il giorno della festa (sia che
fosse stata festa familiare o festa pubblica) si
differenziava da tutti gli altri giorni solo per la qualità
e per la quantità del cibo.
Era festa, insomma, perchè, senza interrompere le normali
attività lavorative (si pensi ai pastori ed alle
casalinghe, ad esempio), si aveva modo di consumare cibi
diversi e, comunque, di mangiare di più e di debellare la
fame, sia pure per un solo giorno.
I tempi del “Cumbitu”
e della “vuccata
’i San Giuseppi”,
sono finiti da diversi anni. In alcuni paesini
dell’entroterra calabrese, però, grazie alla caparbietà
di alcune famiglie la tradizione è ancora viva. Pertanto è
possibile incontrare persone che accettano l’invito di
dare vita al tradizionale pranzo a base di pasta e ceci,
baccalà e zeppole ma è anche possibile ricevere fino a
casa
una scodella con un’abbondante razione della tipica
pietanza del giorno.
E’ un salutare tuffo nel passato che, contrariamente alla
tradizione, più che allo stomaco fa sicuramente bene allo
spirito.
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