Galatro: Racconti Popolari |
I pitti pii |
di Carmelo
Cordiani Pitta sta per farina impastata e schiacciata, a forma di piccola pizza. Pia, devota, forse per la circostanza, il NATALE, festa che plasmava di sacro ogni oggetto e impregnava di devozione le cose più semplici. E semplici, in fondo, erano le “PITTE PIE”, fatte nelle case semplici, mettendo sapientemente insieme gli ingredienti che la natura generosa, allora, ci dava. D’estate si raccoglievano i fichi e si essiccavano al sole, caldo, limpido, senza l’afa fastidiosa che opprime il solleone. Si sceglievano i migliori, quelli che, poi, si sarebbero chiamati “fichi bianchi”, non andati in forno che dava, invece, agli altri un tipica imbrunitura. Messi da parte, nei canestri di strisce di castagno artigianalmente intrecciate, in luogo asciutto, si rivestivano lentamente di una patina bianca, come se un abile pasticciere vi avesse profuso zucchero a velo. Sempre in estate, verso la fine di agosto, si passava nella vigna per la raccolta dello zibibbo. Che profumo! Il più bello si lasciava al sole, dopo averlo immerso, per qualche secondo, nell’acqua calda, piuttosto forte, ma non bollente. E il sole paziente lo essiccava al punto giusto, accentuandone la dolcezza. In ottobre si mettevano da parte le noci, dai gherigli sani, oleosi, che uscivano dal guscio bianchi, come freschi di bucato. Al tempo della vendemmia si faceva bollire il mosto, dolce, appiccicoso, subito dopo aver pigiato l’uva con i piedi, prima che cominciasse a fermentare, lo si faceva bollire, a lento fuoco, da ridurlo a terzo, denso, profumato. Quando dalla parte alte della sezione Magenta partiva il primo accenno di zampogna, era il tempo giusto delle “PITTE PIE”. Fichi secchi, noci, zibibbo si macinavano con il trita carne, aggiungendovi bucce di mandarino. Il tutto si amalgamava con il mosto cotto. La casa, riscaldata dal braciere, si impregnava di Natale. Sento ancora quel profumo e sento, lontana, la voce della mamma che mi sgridava quando rubavo un cucchiaio di quella magica crema. Poi si impastava la farina. Se ne ricavavano forme sottili e rotondeggianti, vi si depositava una buona porzione di quella crema, si avvolgeva a semicerchio e si mandava in forno. Il forno, allora , quello a legna, non mancava nelle case. Alcune “pitte” venivano chiamate “lumericchi”, perché avevano la forma delle primitive lucerne, una specie di coppa, riempita di crema, con quattro beccucci. Erano le preferite, perché ricche di crema. E si attendeva il Natale per portarle a tavola. Una, due ciascuno, come oggetti sacri e preziosi, da consumare seduti accanto al braciere, finché lo zampognaro non avesse posato l’otre per il prossimo Natale. Oggi, il tutto confezionato, trionfa sulle tavole a Natale. Il panettone associato ad ogni gusto possibile, dal cioccolato all’ananas, dal wiski al caramello, dal mandorlato al pandoro, sempre più pesante e indigesto, è entrato prepotente nel menu natalizio. Guai se manca. Benvenuto, panettone, simbolo di benessere e di gran consumo. Ma non illuderti di essere tanto buono da poter minimamente competere con una sola “PITTA PIA”. Quanto vale mezzo “lumericchio” non valgono dieci dei tuoi amici concorrenti, anche se confezionati con la bottiglia di spumante, senza o con la sorpresa, accompagnato dalla coloratissima immagine di babbo natale o da una soubrette in calzamaglia. Ti possono riempire di aromi nostrani o esotici. Non riuscirai mai ad avvicinarti alla bontà semplice dei fichi secchi, dello zibibbo appassito, del mosto cotto filante e appiccicoso, impastati con noci tritate e bucce fresche di mandarini. |
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