Galatro: |
A Petra d'i Fati |
di Carmelo
Cordiani Doveva avere molta fretta Frate Agapito per rifiutare l’invito a pranzo del governatore Passalia. Di solito, quando scendeva a Galatro per fare visita a Diego, miracolato dall’abate Conone, si fermava fino a tardi, tanto che il governatore lo faceva accompagnare a cavallo, fin quasi al convento di Sant’Elia. Quel giorno, venti agosto, aveva deciso di passare anche da massaro Cosimo per verificare l’effetto del suo decotto contro la gotta. Ci aveva messo tuta la sua esperienza a prepararlo e, per il ribes nero, aveva girato tutte le pendici del Sàlico [1]. Ecco perché aveva deciso di lasciare il palazzo di Diego verso le undici e mezzo e di attraversare il bosco di Mascia [2], fresco come un ghiacciolo, per il viottolo che lo avrebbe portato dritto alla masseria. Procedendo lungo il Metramo e, poi, sul lato destro del Potàmi arrivò a Juda [3] che mancava poco a mezzogiorno. I grossi ontani, tanto fitti da non lasciar filtrare nemmeno il più ostinato raggio di sole, lo attendevano come se si fossero passati parola. Al suo arrivo il mormorio delle foglie si unì allo scroscio delle acque e Frate Agapito si fermò, ringraziando Dio per quelle meraviglie che non costavano nulla, che tutti potevano godere, perché, diceva: “Il buon Dio vuole che l’uomo sia felice senza spendere un quattrino”. Poi pensò di riposarsi un poco, prima di iniziare il viottolo in salita. Si calò il cappuccio, si tolse i sandali, si rimboccò le maniche. L’acqua fresca, con quella calura di agosto, fu il migliore ristoro; più salutare del pezzo di pane che cominciò a mangiare, seduto su una pietra levigata dal secolare Potàmi. “Grazie, o Signore, per questo pane che la tua Provvidenza e la carità dei fratelli mi hanno concesso. Forse a casa di Diego avrei peccato di gola. Ma il pane della Provvidenza ha il sapore delle cose semplici e non fa male né al corpo, né allo spirito. E, poi, quest’acqua così generosa, così abbondante!...” E dicendo queste parole immergeva le braccia fino al gomito, passandosi le mani gocciolanti sulla fronte. Sul collo, tra la lunga barba. “Oh! Eccola”, disse improvvisamente, posando gli occhi su un roccione a circa dieci metri, messo un po’ di traverso proprio dove il viottolo, uscito dall’ultimo tratto pianeggiante, cominciava ad inerpicarsi sulla fiancata nord di Mascia. “Dev’essere la Pietra delle Fate”. E si avvicinò. Le ampie spaccature erano ricoperte di morbido muschio. Ciuffi di capelvenere si aprivano ad ombrello dove la roccia sembrava tagliata a mensole. Alta circa cinque metri dalla base che comprendeva anche un tratto del viottolo, larga un tre metri verso il centro, sembrava un mostro messo lì a guardia dei segreti di Mascia. Certo, vista di profilo, contro l’unico spaccato di cielo da cui filtrava una luce diffusa come da un grande specchio, faceva uno strano effetto sulle pareti che assumevano colori bluastri. Forse per questo le gente credeva che l’ora della magia fosse proprio “ ‘ntra u piri piri d’u jornu”, in pieno giorno, fra le dodici e le tredici, A quell’ora, si diceva, le Fate fuoriescono dalla pietra in cui sono imprigionate da millenni e compiono, tutt’intorno, delle danze solenni e piene di grazie, elargendo generosamente doni e fortuna. Le piccole fessure si sarebbero trasformate in lussuose stanze, con le porte d’oro e i pavimenti di cristallo. Lo stesso Potàmi avrebbe assunto le dimensioni di un grande lago, disseminato di ninfee e gli enormi elci si sarebbero aperti per lasciar penetrare il sole in tutta la sua luminosità. L’incanto sarebbe durato poco e colui che avesse avuto la fortuna di essere presente a questo magico momento, sarebbe stato ricco e felice per tutta la vita. Non mancavano quelli che, per tanti giorni, lasciavano il lavoro per essere puntuali all’appuntamento delle dodici. Ma ritornavano nei campi con la speranza di una prossima volta perché le anziane, che raccontavano le meraviglie successe ad altre in tempi lontanissimi, dicevano che bisognava insistere, andarvi più d’una volta, con l’animo innocente e restare “ sopra pensiero”, come dire “ distratte”, senza malizia. Ma come si faceva a non pensare alle Fate in quello scenario solitario, ascoltando la voce degli ontani ed il gorgoglio dell’acqua che si perdeva a valle! E quello specchio di sole che tingeva d’incanto la grande pietra! Sedutosi vicino, Frate Agapito aveva involontariamente appoggiato la testa sul gigante di pietra. I suoi pensieri erano andati lontano, lontano... Alla fanciullezza rattristata dalla perdita della mamma; ai suoi primi contatti col chiostro; agli amici di allora; ai giorni di sofferenza e di speranza; al momento decisivo in cui aveva giurato di essere per sempre umile frate, povero come il poeta di sorella acqua e di frate sole, casto e semplice come colomba. E gli veniva in mente Diego, ricco, tanto felice perché, ora, poteva muoversi con le proprie gambe. “ E’ vero”, pensava, “che Gesù ha detto : Guai ai ricchi... Ma Diego è sempre stato generoso, ha tanto sofferto dalla nascita, ha pregato, E. poi, non è tanto la ricchezza che dà fastidio a Gesù. E’ l’attaccamento alla ricchezza. Quell’attaccamento che ci fa dimenticare di essere venuti al mondo nudi e di dovercene andare nudi. L’attaccamento che diventa egoismo e va contro il fratello che ha tanto bisogno e non riesce a sopravvivere.. Gesù non può proibire a nessuno di star bene perché è Lui che ha creato la terra con beni per tutti. Con l’acqua per tutti, con il pane per tutti. Certo, se uno prende il pane del fratello questi resta senza. Se uno accumula, per gli altri non resta niente. Se si pensasse un po’ di più alla Provvidenza, non si inventerebbero storie come questa delle Fate. Le Fate che fanno diventare ricchi e felici! Ma come si fa a credere a cose che non si vedono e non si crede alle meraviglie delle creature che si vedono!”. Immerso in tali pensieri, con la testa appoggiata alla grande pietra, Frate Agapito si addormentò. Le foglie degli elci diventarono cristalli di stelle. Il Potàmi si slargò a vista in un immenso oceano. Lo specchio di sole si trasformò in un’enorme cupola d’argento. La roccia inerte prese vita e si mise a danzare, lenta e solenne al canto di mille uccelli. Frate Agapito era ritornato bambino e sentì una mano morbida e calda sfiorargli i capelli, accarezzarlo, sollevarlo come una piuma e stringerlo in un forte abbraccio. Per istinto allungò le manine per toccare quel viso di fata ed aggrapparsi al collo come aveva fatto tanto, tanto tempo fa. Strinse così forte che si svegliò con un sussulto.
“Dio
mio, è tardi”, disse. E rimase un momento a guardare la
grande pietra. |
|
* |
I nomi di Agapito, Passalia, Diego, Abate Conone sono stati presi da “Racconti”, di U. Di Stilo. |
Sàlico: Località sul lato sinistro del fiume Fermàno, guardando a monte da Galatro. |
|
Mascia: Bosco di elci, forse l’unico rimasto ancora intatto. Si trova sul lato destro del Potàmi se si guarda con le spalle verso Galatro. Sulle alture si apre la pianura di Cubasina, dove si trovano i ruderi del convento di Sant’Elia. Da Mascia si attinse la prima acqua potabile, trasporata fino a Galatro attraverso una condotta di terracotta. I dislivelli erano stati sapientemente superati con ponti ad archi. Ne rimane ancora uno in località Spilinga, alla periferia est di Galatro. |
|
Juda: Località ai piedi di Mascia. Un tempo era coltivata, data la presenza dell’acqua del fiume Potàmi. |