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di Giannino Oscar
Forse è presto per
dirlo. Anzi, forse non bisogna dirlo per niente. Perché, si sa, il
primo che segnala che nel gioco di una squadra c'è un calo di
tensione, è anche il primo a dar l'avviso al suo allenatore che deve
rapidamente sostituire modulo o giocatori. Ma corriamo pure il
rischio, diciamolo: forse c'è qualche segno di frenata nella
tumultuosa accelerata di affari bancario-industriali avvenuta
intorno a Romano Prodi. Si iniziano a intravvedere cenni di
reazione, e il segno delle prossime mosse potrebbe essere diverso da
quello sotto cui sono nate San-Intesa e la fusione Lombarda-Bpu, la
conquista dell'Abi (Associazione bancaria italiana) e la sconfitta
dei Benetton in Autostrade-Abertis.
Il termometro ha segnato una curiosa inversione proprio in occasione
dell'ultimo colpo a segno della premiata ditta Prodi-Bazoli, quel
Fondo Infrastrutture Italiane (F2I) nato dalla Cassa Depositi e
Prestiti di Alfonso Iozzo e dalle fondazioni bancarie "amiche" e
guidato da Vito Gamberale: dopo la trionfale presentazione a Milano
a opera di Tommaso Padoa-Schioppa, noi modesti liberisti ci siamo
mobilitati. Di solito lì finisce, perché non ci viene dietro nessuno
o quasi. Questa volta, però, autorevoli editorialisti "fuori dal
giro" liberista doc hanno ripreso e rilanciato i tanti aspetti poco
convincenti del progetto: Corriere, Sole e Repubblica hanno impilato
un bel "chi va là" all'ipotesi che F2I possa servire alla messa in
sicurezza di asset sensibili come le grandi reti energetiche o di
quote di controllo di aziende pubbliche e private.
Al contempo il governatore di Bankitalia Mario Draghi non si è
tirato indietro, e al Forex ha sparato una bella stroncatura di quel
regime di governance duale che tutte le fusioni bancarie bazoliane
hanno rapidamente adottato e che si vorrebbe fare adottare anche a
Mediobanca, Generali e Rcs. Tradotto, quello di Draghi è un bell'invito
ai dissenzienti a farsi animo e a non considerare le operazioni nate
sull'asse Roma-Brescia come le uniche col bollino di garanzia. Gli
effetti si sono visti. A criticare l'autogol di Generali, realizzato
con l'offerta di sostegno a San-Intesa in cambio della conferma dei
propri attuali vertici, ma con pesanti limitazioni da parte
dell'Antitrust alla rete e alla vendita dei propri prodotti,
all'inizio eravamo in pochi, ingiustamente accusati di avercela con
il "potere unico" bazoliano. Ma, nel giro di pochissimo, finalmente
è stato lo stesso amministratore delegato del Leone Giovanni
Perissinotto a dichiarare l'insoddisfazione di Generali, mentre il
sindaco di Torino Claudio Chiamparino ha fatto votare dal proprio
rappresentante nella Compagnia SanPaolo un bel no alla nuova
governance. L'incrocio assicurativo Alleanza-Eurizon va dunque
sciolto diversamente da come si proponeva Giovanni Bazoli. E se a
Brescia vorranno usare le tardive obiezioni di Trieste per
abbandonare il progetto di quotazione della Eurizon di Mario Greco,
a Torino Ifi-Ifil e la fondazione SanPaolo insorgerebbero per
avvenuta spoliazione della città. Mentre se Generali si ritrarrà da
San-Intesa, sarà il segno che la partita bazoliana per controllare
Trieste prima e "annacquare" Mediobanca poi ha messo il piede in
fallo.
Anche Montepaschi tentenna
Forse potrebbe rivedere le sue intenzioni anche il Montepaschi di
Giuseppe Mussari, il quale, unitosi di fatto ai vincitori, sta dando
una gran mano alla nascita di Grand Ho-tel (la fusione delle holding
bresciane Mittel e Hopa, l'una bazoliana, l'altra controllata anche
dal gruppo senese) con la speranza di vedersi cedere da Bazoli i
quasi 200 sportelli che San-Intesa ancora deve smettere per
rispettare le condizioni poste dall'Antitrust. Di fatto 200
sportelli non sono pochi, ma ammettiamolo, per quella che un tempo
era la potente "finanza rossa" sono al più un premio di
consolazione. Anzi, un "consolarsi con l'aglietto", come si dice a
Roma. Mentre per la Popolare di Milano, sin qui penalizzata nelle
ipotesi di fusione dal suo particolare statuto (a differenza della
Lombarda bazoliana, che ha potuto prevalere grazie alla sua natura
non contendibile, "ritirando" dal mercato anche la Bpu che era in
forma di spa), le parole di Draghi per la riforma delle popolari
sono un incentivo a vedere forse un domani superati i tanti no che
si è vista opporre negli ultimi anni.
Molto dipende - e non solo su questa partita - da che cosa farà
Alessandro Profumo. Ed ecco che per la prima volta domenica scorsa
su Repubblica compare il suggerimento di un vecchio marpione della
finanza, Giuseppe Turani: ma perché Profumo non prende il coraggio a
due mani e non si confronta con Cesare Geronzi di Capitalia allo
scopo di unire nei due marchi quel che diverrebbe un solido asse di
comando di Mediobanca e Generali e domani candidarsi a un nuovo
megamerger europeo tale da non annacquare troppo la parte italiana,
visto quel che vale Capitalia, rimasta l'unica banca di quella
taglia fuori dal risiko bazoliano, per di più con gli olandesi di
Abn che scalpitano nel suo sindacato e gli spagnoli del Santander
appostati nell'azionariato?
In campo non ci sono solo le banche
Fuori dal recinto bancario-assicurativo, se la frenata che vi stiamo
descrivendo con un po' di ottimismo ha qualche fondamento, sarà meno
difficile per Marco Tronchetti Provera pilotare la sua discesa in
Olimpia meno traumaticamente di quanto non sembri alla luce degli
ultimi sviluppi giudiziari. E se Telecom Italia non vede l'ingresso
di un nuovo socio forte che indirizzi i pingui flussi di cassa agli
investimenti su rete fissa e banda larga invece che alla
remunerazione del debito Pirelli a monte, diventano più improbabili
le voci di un'Opa sulla Fastweb di Stefano Parisi, oggi public
company. Un grande gruppo europeo, infatti, potrebbe non considerare
utile provare a rilevare l'unico vero concorrente di Telecom su rete
fissa, almeno finché quest'ultima non uscirà dal suo letargo sul
mercato italiano.
Quanto alle aziende pubbliche, per Eni ed Enel il 2007 è l'anno dei
possibili grandi accordi in Russia: potenzialmente ancor più
promettenti per la società guidata da Fulvio Conti che per quella di
Paolo Scaroni, perché le maxigenco elettriche russe da privatizzare
sono asset meno politicamente scottanti degli accordi su Arktik Gas
e dell'accesso ai megagiacimenti siberiani inseguiti dal cane a sei
zampe. Mentre per la Finmeccanica di Piefrancesco Guarguaglini la
data clou sarà la fine di marzo, quando si conoscerà l'esito della
maxigara americana per i velivoli di trasporto militare tattico. A
differenza degli elicotteri per la holding italiana della difesa è
vitale assicurarsi il contratto multimiliardario col suo C27J
Spartan. Altrimenti bisognerà che Prodi autorizzi Finmeccanica a una
grande acquisizione proprio sul mercato americano, ma con la
politica estera di questo governo non è scontata né la prima né la
seconda cosa.
Una partita iniziata vent'anni fa
Per quanto riguarda l'unica grande privatizzazione varata dal
governo, quella di Alitalia, infine, è singolarmente promettente che
a sedersi al tavolo con Prodi si trovino non proprio un suo
estimatore come Carlo De Benedetti, che ci mette pochi soldi ma la
propria faccia per intero, e ancora una volta la Unicredit di
Profumo. È presto per capire come finirà, e verso quale ipotesi
internazionale di integrazione del trasporto aereo si indirizzerà
l'esito industriale della gara. Ma tra le tante ironie della sorte,
c'è quella di un'Alitalia con De Benedetti in campo, inevitabilmente
ai ferri corti con i ritardi di Adr, la società che gestisce
Fiumicino, scelta da Cesare Romiti per l'ultimo arrocco dopo anni di
ritirate. Prodi-De Benedetti-Romiti, il girone di ritorno di un
torneo di vent'anni fa.
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