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di Antonio Socci
C’è un
ritornello ormai insistente nelle dichiarazioni dell’opposizione: il governo
Berlusconi sta portando l’Italia alla rovina, alla de-industrializzazione,
al disastro. Domenica scorsa lo ripeteva un editoriale di Furio Colombo
sull’Unità: siamo in uno “stato d’emergenza”, diceva, questo
esecutivo provoca “il declino dell’Italia” e tale declino “è la chiave di
lettura di tutto”.
Magari fosse così. In fondo il rimedio sarebbe facile. Basterebbe spazzar
via il governo Berlusconi, sostituirlo con un governo di centrosinistra e
subito all’Italia si spalancherebbero luminosi orizzonti di benessere. Ogni
persona di buon senso dovrebbe esserne felice. C’è solo un problema. I dati
che prospettano il declino del Paese, dati della Banca d’Italia, si
riferiscono esattamente agli anni di governo del centrosinistra.
Le cifre sono chiare, incontestabili e tante volte, da queste colonne, le
abbiamo analizzate. Dal 1995 al 2001 (cioè l’epoca ulivista) la quota
italiana nel commercio mondiale è crollata del 20 per cento e – sempre nello
stesso periodo – la nostra crescita è stata la metà degli altri paesi
industrializzati, mentre la produzione industriale, fra 1995 e 2002, è
cresciuta solo di un terzo rispetto agli altri paesi europei. Pur essendo la
sesta economia mondiale, nel triennio 1999-2001, per reddito lordo
pro-capite, corretto dal potere d’acquisto, siamo crollati al 28° posto.
Dunque Berlusconi non ha prodotto il disastro, ma l’ha ereditato (insieme
con l’immenso debito pubblico) dal centrosinistra. Anzi, Berlusconi ha vinto
le elezioni del 2001 proprio con il progetto politico di fermare il declino
e rilanciare il Paese.
Per raggiungere un traguardo così grande e ambizioso ci vorranno tutti i
cinque anni della legislatura e anche di più. A metà della legislatura molte
sono le cose fatte dal governo, ma i dati dell’economia sono ancora
negativi. Per due motivi. Innanzitutto la crisi planetaria conseguente
all’11 settembre che ha gelato i primi segnali di ripresa. Fa sorridere
l’affermazione di Colombo secondo cui la crisi riguarderebbe solo l’Italia.
“C’è forse un declino della Francia e della Germania?”, si chiede
retoricamente.
Altroché. La
Germania non è più il motore dinamico d’Europa e con la Francia è caduta
perfino sotto la penalizzazione dell’Unione europea per i suoi conti
pubblici (cosa che non è accaduta all’Italia). La loro situazione si è fatta
così allarmante che i due governi stanno ora mettendo in cantiere quelle
riforme strutturali che sono ormai vitali in tutta Europa per propiziare la
ripresa. Anche l’Italia deve andare per questa strada. Il governo Berlusconi
è nato per questo.
Purtroppo quando ci ha
provato più energicamente è stato assalito da un’opposizione e da un
sindacato, la Cgil, accanitamente abbarbicati al vecchio. Ancora domenica
l’ex ministro diessino Vincenzo Visco rimprovera al governo di pensare che
“in Italia ci sono troppe tasse, troppe leggi, troppi sindacati”. Solo
un’opposizione vecchia usa ancora questi argomenti e non si rende conto che
lo “stato sociale” va totalmente ridisegnato. A cominciare dalle pensioni.
Il prezioso Rapporto Cefass 2003, curato da Maite Barea e Giancarlo Cesana,
con il titolo Il welfare in Europa, spiega benissimo che l’attuale
sistema europeo non è più economicamente sostenibile, ma spiega pure che
l’alternativa non è fra il vecchio assistenzialismo che affonda le nostre
economie e una selvaggia cancellazione delle protezioni sociali come paventa
la Sinistra. No. C’è la possibilità di modernizzare la solidarietà sociale
anche coinvolgendo il privato e la società. Ma non è possibile e non è
giusto – per fare un solo esempio – che l’Italia dedichi fra il 43 e il 50
per cento della spesa pubblica totale alla “funzione vecchiaia” mandando in
pensione persone ancora dinamiche, in età attiva, per dare poi solo gli
spiccioli (fra lo 0 e il 2 per cento) a famiglia, disoccupazione, esclusione
sociale, abitazioni. O che per questo manchino risorse per investire in
scuola, ricerca, innovazione, infrastrutture. Così un Paese non ha futuro.
Si dirà: ma al governo c’è il centrodestra, faccia lui le riforme. E’ un
discorso superficiale. Per fare grandi riforme sociali come quelle che sono
necessarie, in tutta Europa, non basta la sola maggioranza di governo,
occorre anche il concorso delle forze sociali e in Italia il sindacato
maggiore, la Cgil, è del tutto identificato dalla politica dell’opposizione
e condivide i suoi ritardi. E’ questo che paralizza tutto.
E’ tipico della Sinistra accorgersi dei propri errori con venti anni di
ritardo, provocando immensi danni al Paese. Nel suo ultimo libro, per
esempio, Piero Fassino, ha riconosciuto: “La sfida con Craxi colse i
comunisti impreparati e mise a nudo il loro ritardo nel misurarsi con la
modernità. Craxi interpreta le domande di dinamicità di una società che
cambia e chiede alla politica di stare al passo. Il Pci invece vede nei
cambiamenti un'insidia, anziché un'opportunità, e si arrocca in un
atteggiamento difensivo che ne ridurrà influenza e credibilità politica. Mi
ha sempre colpito l'inspiegabile contraddizione per cui la sinistra nasce su
un'intuizione di Marx - il movimento è il motore della storia - ma poi
guarda spesso con timore e ostilità a tutto ciò che muove”.
Si direbbe che il problema per il Pci-Pds-Ds resta anche oggi lo stesso.
La sua rischia di
essere la storia del “socialismo surreale”. E’ impossibile trovare un
partito così, che abbia sbagliato sempre e assolutamente tutto, fin
dall’inizio (sulla democrazia occidentale, sul Piano Marshall, sulla Nato,
su De Gasperi, sull’Urss, sugli Usa, sul sindacato, sul libero mercato, sul
centrosinistra, sulla Comunità europea, sulla riforma regionalista, sul
Vietnam, sugli euromissili, sulla scala mobile, su Craxi, fino al 1989
quando gli cadde il Muro di Berlino in testa).
Ma è altrettanto impossibile trovare un partito che
tuttavia conservi da 60 anni la stessa pretesa di superiorità. E gli stessi
argomenti. Alla vigilia delle elezioni del 1948 il Pci di Togliatti lanciò
una feroce campagna contro De Gasperi accusandolo di voler consegnare
l’Italia agli americani, portando il Paese alla rovina e alla fame. Quarant’anni
dopo i dirigenti del Pci riconobbero (per ultimi e sottovoce) che in effetti
Togliatti aveva torto e De Gasperi aveva ragione. Ma tale apparente
“strappo” serviva per lanciare contemporaneamente la stessa operazione
demolitoria contro Craxi: accusato di essere un Nemico metafisico che
avrebbe portato l’Italia alla rovina.
Oggi, venti anni dopo,
il segretario dei Ds Fassino, riconosce a sua volta che allora aveva ragione
Craxi e aveva torto Berlinguer. Ma contemporaneamente il suo partito lancia
la stessa guerra totale contro Berlusconi, accusato di essere un Flagello
satanico che porta il Paese al disastro. E’ prevedibile che fra venti anni
riabiliteranno Berlusconi per poter procedere alla demolizione del loro
avversario del momento. Finora però si deve constatare, purtroppo, che la
Sinistra si è dimostrata – per dirla con Fassino – ancora “impreparata” e
“in ritardo nel misurarsi con la modernità”.
Qualche spiraglio
di disponibilità si è intravisto, in questi giorni. Probabilmente dovuto al
calcolo politico: sperando di vincere le prossime elezioni l’Ulivo capisce
di avere tutto l’interesse e ereditare un’economia pronta alla ripresa,
anziché un’economia al collasso. Vedremo se quella iniziale disponibilità
avrà un seguito, sia pure per calcolo. Altrimenti sarà il Paese a doverne
pagare i danni.
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