Politica

Palavobis. Giro, girotondo…

... tutti giù per terra. In “quarantamila” a Milano per celebrare i dieci anni di Mani Pulite. C’erano tanti: Di Pietro, Dario Fo, Flores d’Arcais, Zaccaria, Colombo, ecc. ecc., «per difendere la Giustizia». Che cosa hanno detto: giudicateli voi

di Maurizio Crippa


«Uno sguardo stremato/ in una stagione che vaaa…». La fotografia è quella di Antonio Di Pietro, Oliviero Diliberto e Roberto Zaccaria sulle prime pagine dei giornali di domenica 24 febbraio, in piedi come i Fratelli Bandiera ad arringare la folla da sopra un baracchino di lamiera. Arringano “i quarantamila”, o vattelappesca quanti, convocati al Palavobis di Milano per celebrare dieci anni di Mani Pulite («per difendere la Giustizia»), dalla rivista MicroMega, organo ufficiale del forcaiolismo diretta da Paolo Flores d’Arcais. Chissà perché, a guardare quella foto mi torna in mente una canzone del vecchio Rouge: lo “sguardo stremato” è il loro. Quello di Tonino soprattutto, che strabuzza gli occhi e la grammatica nel tentativo di rivestire di nuovo swing una stagione ormai andata (e senza rimpianti), quella del giustizialismo. «C’è un Paese con un cuore che batte, che è alternativo geneticamente a Berlusconi», grida l’ex pm (Il Giornale, 25 febbraio). “Geneticamente”. Ecco la parola magica: “prezzemolino” Zaccaria ha smesso da un giorno i panni di presidente della Rai - l’Istituzione con la maiuscola - e pur di non perdersi un bagno di folla è già lì a fare le barricate, a inventarsi su due piedi la proposta di quattro-referendum-quattro: “Giustizia, rogatorie, falso in bilancio e conflitto d’interessi”. Diliberto è pure stato ministro di Giustizia, ma di lui non si ricordano provvedimenti degni del re Salomone. Geneticamente diversi?

Panna (auto)montata
«È un assedio gigantesco, una festa arrabbiata che va al di là di ogni previsione e trasforma quello che doveva essere un semplice convegno dedicato alla legalità in una straordinaria kermesse del popolo della sinistra, dei fax e delle e-mail». Nientemeno. «Un assedio che scatta con incredibile puntualità alle 14.30», che se tardavano dieci minuti sai che fine faceva, Madama la Legalità. Peccato che la prosa mirabolante, su La Stampa del 24 febbraio, non sia di un ingenuo cronista, ma quella di Paolo Colonnello: ovvero di uno dei giornalisti più allineati, negli anni di Tangentopoli, alla Procura di Milano, in ottimi rapporti soprattutto con Di Pietro.

E sì, perché in tutto questo bailamme, in questa strepitosa performance della panna che si monta da sola, che si auto-convoca e che si auto-monta (la testa), il trucco c’è, e si vede. È il ruolo giocato dalla stampa (non “da certa stampa”, che è modo di dire brutto e sempre vagamente intimidatorio), ma proprio in prima persona da un bel manipolo di giornalisti, nomi e cognomi, sempre quelli, ormai un po’ stempiati a furia di massaggiarsi le meningi sui perché del Malaffare. Come Marco Travaglio (una delle star del Palavobis e anima del sito Internet www.manipulite.it), quello dello show con Luttazzi a Satyricon. O l’indomito Curzio Maltese di Repubblica, o Furio Colombo, scivolato con nonchalance dalla presidenza della Fiat America alla direzione dell’Unità.

Sotto la panna, l’impressione è però che la stagione sia passata davvero, che la primavera dei girotondi sia solo una velleitaria trovata postuma di quella auto-proclamata “società civile” che ha sempre scambiato se stessa per il Bene, e il radicalismo per la Verità. Da qui i fischi e i «buuuu» ai propri stessi leader e i «D’Alema go home» e le risate matte per le parodie di Berlusconi firmate dal Nobel Dario Fo, stella artistica di prima grandezza dei “palavobini”. Il quale però, significativamente, ha ricevuto la maggior dose di applausi quando ha sbottato in un lapidario «se non c’era D’Alema, col cavolo che Berlusconi diventava presidente del Consiglio». Dentro e fuori dal Palavobis, gli slogan dei duri & puri sono un florilegio di estremismi: «Se perdiamo la magistratura, cosa ci rimane da fare?». Domanda che, se a farla è una insigne letterata come Nanda Pivano, fa davvero pensare: non sulla giustizia, ma sulla letteratura. Oppure: «Siamo in una situazione di emergenza democratica. Oggi le armi del golpe sono le telecamere, l’informazione, la comunicazione» (Furio Colombo, intellettuale che passa per studioso dei mass-media).

Nanni e ballerine
E il denuncialismo per il denuncialismo: «La moglie di Bruno Vespa è al ministero della Giustizia al posto di Giovanni Falcone», strilla Marco Travaglio, lasciando intendere chissà quali arcani. Se anche un economista stimato nei salotti buoni come Paolo Sylos Labini tuona che «la criminalità organizzata è al potere», l’effetto è certo: è la morte del ragionamento politico (Flores D’Arcais: «Certo che sono spinte antipartito, finché i partiti d’opposizione non fanno l’opposizione»).

E poi c’è la nuova star, Francesco Pancho Pardi, uno che non ci si può credere che esista davvero, uno che sembra una caricatura uscita da un film di Nanni Moretti quando Nanni Moretti fustigava la sinistra massimalista, ciarliera e inconcludente. Pancho Pardi è un «professore con la pancetta» (dice lui), insegna Analisi del territorio a Firenze e si voleva incatenare al Battistero. Strilla: «Nessun compromesso con Berlusconi, solo opposizione dura e ostruzionismo». E poi una pletora di cantanti, comici e pasionarie. Come Daria Colombo, giornalista free-lance e più che altro moglie di Roberto Vecchioni, leaderessa milanese dei girotondi. Una che dice: «La novità di quel che è successo è nell’autenticità della gente».

I “Nanni e ballerine”, come li ha infilzati con un geniale calembour lo scrittore Erri De Luca, che pure è uno che viene dalla sinistra. Ha notato significativamente la Repubblica: «L’applauso più lungo al nome di Enrico Berlinguer». Perché di questa strumentalizzazione dell’etica, del mito fasullo della “diversità morale” della sinistra, Berlinguer fu il padre nobile e l’alfiere.

Un Paese a-normale
Riassunto del direttore del Foglio Giuliano Ferrara (11 marzo): «In Italia un potere sodo si è travestito da società civile: è il potere dei giudici, degli artisti, dei professionisti, dei professori…». Dall’altra parte c’è «la società civile maggioritaria, quella dei pensionati, delle donne di casa, dei professionisti, delle soap, delle partite Iva, che si è travestita da potere, nel senso che il voto l’ha investita della responsabilità di governare». Fotografia nitida.

Ma qui si apre anche un’altra serie di considerazioni, che riguardano coloro che sono stati «investiti della responsabilità di governare» in nome dell’«altra parte d’Italia» (chiamatela se volete società civile, anche se con maggior senso della misura i governi democristiani evitavano di chiamarla e basta: era il “Paese reale”, l’eterna e silenziosa «Franza o Spagna basta che se magna»). Governare significa dare un senso e una direzione, una via d’uscita, anche a conflitti gravi come quello sulla giustizia. Ma l’impressione è che non si navigherà molto lontano verso la pacificazione nazionale, se il ministro Guardasigilli Roberto Castelli, tanto per smorzare i toni del Palavobis, sfodera siffatto senso di responsabilità istituzionale: «Credo che non si ripeterà la storia degli anni di piombo, ma sono certo che andremo incontro a qualche episodio di violenza».

Inoltre è innegabile che qualche problema di credibilità, su questi temi, il governo ce l’abbia. Almeno finché Gianfranco Fini sarà costretto ad arrampicarsi sugli specchi per inventarsi una “Mani pulite uno” (buona), e una “Mani Pulite due” (roba da comunisti), per non essere costretto ad ammettere che nella “fase uno” il forcaiolo era lui, prima di arrivare al governo (grazie anche alle forche). Per non dire di Umberto Bossi, il capo di Castelli, che nel 1998 urlava - e il video è stato polemicamente riesumato al Palavobis - che «i soldi di Berlusconi vengono dalla mafia». Insomma, smontata la panna e finiti i girotondi, resta una inconsolabile, dalemiana nostalgia per un Paese normale.

di Maurizio Crippa, Tracce Aprile 2002

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