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di
Paolo
Biondi
È uno dei cavalieri della Tavola
rotonda. Al congresso di Pesaro che elesse Piero Fassino
segretario dei Ds sedeva attorno alla rotonda che guidava le
assise, poi è entrato nella segreteria che guida i
Democratici di sinistra lungo il guado dell’opposizione.
Un guado periglioso, insidiato dalle scorribande dei vari
Nanni Moretti, dalle adunate dei Palavobis dove Antonio Di
Pietro indossa la toga del giustizialismo e la sinistra
diessina lombarda quella del massimalismo. Pierluigi Bersani,
nella passata legislatura ministro dell’Industria prima e
dei Trasporti poi, ora viaggia per l’Italia a ricucire un
partito trapassato dalle mazzate sullo Statuto dei
lavoratori del governo Berlusconi.
L’omicidio
di Marco Biagi è un macigno sul dialogo sociale?
Non credo che questi fatti criminosi, Biagi oggi come
D’Antona ieri, abbiano nulla a che fare con il cosiddetto
clima sociale nel Paese. Tuttavia credo sia desiderabile un
Paese nel quale ci si confronti con capacità di
legittimazione reciproca, pur nei ruoli distinti di
maggioranza e opposizione.
Proprio a partire
dall’omicidio di Biagi lei ha fatto una proposta anche
alla maggioranza. Ce la può spiegare?
Ho proposto di andare in piazza tutti insieme, così come è
avvenuto a Bologna, l’indomani dell’assassinio di Biagi:
il sindaco Guazzaloca era sul palco con tutte le altre
forze. Tocca a tutti difendere la democrazia. C’è, poi,
una vita politica che è desiderabile si svolga con toni
meno accesi; invece abbiamo registrato in questi mesi
un’aggressività nei toni che lacera il senso comune, si
sono toccati dei punti che possono ledere la convivenza
civile.
Piazze che gridano,
governo che martella. Addio pace sociale?
La speranza di poterne uscire c’è sempre, ma prevale la
preoccupazione. I mesi che ci troviamo di fronte sono mesi
di conflitto.
Si riferisce allo
scontro governo-sindacati e alle prossime elezioni
amministrative?
Ci troviamo davanti a uno scontro sociale e democratico
rilevante. Si è aperto un fronte di natura sociale
rilevante.
Derivato da cosa?
Responsabilità ne ha anche l’opposizione?
La sinistra fa politica e mobilita le piazze. È la reazione
alle proposte venute dal governo che tendono a dividere il
corpo sociale e democratico. Nelle pensioni, ad esempio, si
vuole introdurre un sistema previdenziale all’americana in
una struttura previdenziale europea, cosicché i lavoratori
si troveranno divisi, con la riforma dell’articolo 18:
allo stesso banco di lavoro si troverà un dipendente
protetto e l’altro no; con la riforma della scuola si
prospetta in partenza per un figlio di genitori ricchi la
scelta liceale e per il figlio di genitori poveri la scuola
professionale; la riforma delle aliquote fiscali va a favore
dei corpi sociali abbienti... Ecco perché scendono in
piazza padri, figli, madri e nonni: per dire il loro no a
chi vuol dividere così il corpo sociale del Paese. C’è
poi un secondo punto di divisione del corpo democratico e
questo è avvertito maggiormente dai ceti intellettuali: una
sola persona decide le politiche di governo e guida
interessi nel campo televisivo, assicurativo, pubblicitario.
Tutto questo viene percepito come l’instaurarsi di un
regime da più della metà della popolazione italiana e la
reazione è molto forte. Un governo che invece di
pacificare, di mediare gli interessi, si pone come elemento
di rottura sociale, si assume la responsabilità di tutto ciò.
Parla di regime. Ma
non era stato D’Alema, sfidando gli insulti, a dire che
non ci troviamo di fronte a un regime?
Bisogna intendersi sui termini. Chi fa politica sa che a
certe parole corrispondono azioni: se uno parla di regime,
deve prendere la strada dei monti. Se vogliamo essere più
scientifici, dobbiamo parlare quindi di deformazione del
sistema democratico. C’è un problema per l’opposizione
che deve trovare spazi di azione e c’è una responsabilità
per la maggioranza di avere un atteggiamento più aperto in
Parlamento: la radice stessa della parola richiama il
confronto e il dibattere. Invece ci troviamo di fronte
persone che non dicono nulla, ma che sono lì soltanto per
alzare la mano, esprimere dei voti e approvare norme senza
alcun confronto.
Il problema non
nasce certo oggi. Anche la passata legislatura ha visto la
maggioranza votarsi da sola la riforma dell’articolo
quinto della Costituzione. Esiste dunque un problema legato
a questo bipolarismo incerto?
Credo che il problema abbia radici nel fatto che la
transizione non è stata conclusa in modo coerente sia nel
meccanismo elettorale sia nella ristrutturazione delle forze
politiche. L’articolo quinto della Costituzione è stato
modificato nella forma che aveva trovato formulazione nel
corso dei lavori della Bicamerale, che poi fallì. Un
fallimento che, per quanto ce lo si voglia contestare, resta
responsabilità di Berlusconi, e che certificò che non
c’erano le condizioni per attuare un cambiamento. E questo
resta un problema: le regole, infatti, vanno riscritte a
quattro mani, non ne bastano due. Ora osservo che una
tendenza al sovranismo elettorale («abbiamo vinto le
elezioni, il popolo ci ha legittimato a governare») sta
portando a effetti deformanti della democrazia. Si veda il
conflitto di interessi con il quale ammettiamo che un
sindaco possa essere padrone della luce e del gas di una
città e ne gestisca anche le tariffe. No, non ci siamo
proprio: questo è un altro film. Se su questo non c’è
nessuna possibilità di colloquio, allora resta solo
resistere-resistere-resistere.
Ma avere lasciato
spazio al massimalismo del borrelliano
resistere-resistere-resistere così come ai girotondi non è
responsabilità del vuoto di proposta politica della
sinistra?
Credo che la responsabilità massima dell’opposizione sia
stata non avere ancora mandato a sintesi politica questi
malumori e quindi aver lasciato univocità a questi slogan.
Questa impressione che l’opposizione si muova non in
testa, ma in coda a questi movimenti ha elementi di verità.
Il nostro maggior compito oggi è saper ricreare un punto di
riferimento in modo da saper combattere vivacemente, ma di
sapere anche costruire. Del resto, è un rischio che vedo
anche sul fronte opposto. Mi capita spesso di incontrare al
bar gente che non mi viene a dire per chi ha votato, ma che
si capisce che ha votato per il centrodestra e che ha ora
perplessità su quello che fa questo governo, perplessità
che possono sfociare nel qualunquismo.
Che fare?
Costruire un’alternativa possibile è il compito di
domani. Oggi resistere ad alcune cose di questo governo ha
una funzione sociale, per costruire diritti uguali per
tutti.
Ma questo non è già
il compito dei girotondi? Allora bastano quelli?
No, no. Non si vede vivacità solo nei girotondi. Io giro
l’Italia e quando facciamo iniziative abbiamo piene le
sale di gente che partecipa, interviene. Poi ci sono i
girotondi, ci sono le piazze.
Si tratta quindi di
ricostruire una sintesi politica?
Ci stiamo provando. La manifestazione di piazza San Giovanni
a Roma sicuramente non era sintetica nel palco, ma lo era
nella folla, una opposizione a Berlusconi per testimoniare
una alternativa possibile. Francamente non vedo cosa questo
Paese abbia da guadagnarci dalla rottura della coesione
sociale e da questo nuovo rito italiano del rapporto fra
economia e società, un rito secondo il quale se non passi
dal padrone del vapore, non fai più nulla. C’è
un’involuzione sociale ed economica, un ripiegamento dello
stesso capitalismo italiano: i messaggi che arrivano alla
piccola impresa sono solo sui prezzi; una volta
Confindustria lanciava messaggi di benchmarking europeo,
ora sono tutti contro l’Europa. Ma l’apertura che fine
ha fatto? Anche questo è uno dei tanti segnali del
ripiegamento sul lato nazionale. Anche nei bar sono spariti
quelli che dicevano «lasciamolo lavorare». C’è un pezzo
d’Italia che guarda disilluso la situazione, che guarda
Berlusconi che si fa gli affari suoi e, dall’altro lato, a
un centrosinistra diviso. Superare questa frattura significa
combattere, ma anche avere un linguaggio per tutta questa
gente che vuole essere convinta nei fatti.
Disillusione?
Sconfitta della politica?
No, non c’è da spaventarsi. Dobbiamo sapere accettare una
fisiologia del bipolarismo, ma il problema è anche rendersi
conto che questa fisiologia ancora non c’è e allora
rimettersi a dialogare vuol dire costruire quelle tre o
quattro regole fondamentali per far funzionare un sistema
bipolare.
Anche lei vuole una
Bicamerale per queste tre o quattro regole?
Una Bicamerale, in condizioni come quelle di oggi, è
impensabile. Se passa poi questo conflitto di interessi così
com’è, non vedo possibilità bipartisan per i prossimi
anni.
Ci dobbiamo piegare
all’idea di anni di conflitto?
I prossimi mesi decideranno se avremo anni di conflitto
oppure no.
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