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USA- IRAQ: |
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di
Marco Bardazzi Altro che petrolio. A ripensare oggi a tutte le accuse piovute sugli Usa di voler conquistare l’Iraq solo per i suoi giacimenti di oro nero, viene quasi da sorridere. Ma è un sorriso amaro, reso cupo dalle tragedie dell’Iraq postbellico. Mesi dopo aver concluso un’operazione militare indubbiamente brillante, l’America è alle prese con il conto della spesa ed è evidente che sarà salatissimo - in termini monetari, ma anche di vite umane - e assai lungo da pagare. E il tanto discusso fattore petrolio oggi appare solo una spina in più nel fianco della ricostruzione irachena. Lo ha detto chiaramente alla fine di agosto l’amministratore americano a Baghdad, Paul Bremer, l’uomo che secondo alcuni osservatori ha in questo momento tra le mani il lavoro più difficile che esista sulla faccia della Terra. Ristrutturare e gestire l’industria petrolifera dell’Iraq, per Bremer, costerà tra i 16 e i 30 miliardi di dollari. Altri miliardi sono necessari subito per far fronte ai danni agli oleodotti provocati quasi ogni giorno da attentati e sabotaggi. Nei loro giorni migliori, attualmente gli impianti iracheni sono in grado di produrre al massimo 1,7 milioni di barili al giorno, assai meno dei 2,5-3 milioni al giorno di prima della guerra. Ci vorrà un anno o più per riportarli a quei livelli, per non parlare dei “sogni” prebellici di estrarre dai giacimenti iracheni 5 milioni di barili al giorno. Una ricostruzione molto cara Il caso del petrolio la dice lunga sulle difficoltà di un dopoguerra che si preannuncia lunghissimo. Le speranze di pagare le spese della ricostruzione irachena con le risorse di greggio per ora restano lontane dal diventare realtà, mentre il viceré Bremer ha ormai fatto capire con chiarezza agli americani che serviranno decine di miliardi di dollari, prima che l’Iraq possa camminare con le proprie gambe. Il bagno di realismo sulle spese dell’avventura irachena è arrivato in un’estate segnata anche dal bagno di sangue sulle sponde del Tigri e dell’Eufrate. Il numero dei soldati americani uccisi dopo la fine ufficiale del conflitto è ormai di gran lunga superiore a quello dei morti nelle operazioni militari. E l’attentato di agosto al quartier generale dell’Onu a Baghdad, costato la vita anche all’inviato speciale delle Nazioni Unite, Sergio Vieria de Mello, ha mandato in fibrillazione i palazzi del potere a Washington e gli analisti dell’intelligence americana. Le chiavi di lettura di quell’attacco sono riconducibili a due, entrambe con conseguenze preoccupanti per gli Usa. Può essere stata l’opera dei fedelissimi di Saddam Hussein e del vecchio regime, che hanno cercato di mandare subito ko ogni possibile forma di collaborazione tra l’Onu e le forze d’occupazione, mettendo in cattiva luce gli americani per la loro incapacità di garantire la sicurezza. O può essere stato il gesto di terroristi veri e propri, magari seguaci di Al Qaeda, che con le stesse modalità hanno già colpito altre volte (Osama bin Laden da tempo ha messo l’Onu e il suo segretario generale, Kofi Annan, nell’elenco dei bersagli). In quest’ultimo caso, sarebbe la conferma che in Iraq si è concretizzata una situazione paradossale, nella sua tragicità: mentre non sono emerse le prove che organizzazioni terroristiche fossero realmente presenti a Baghdad prima della guerra, oggi l’Iraq potrebbe essere diventato la nuova “terra promessa” di ogni gruppo antiamericano presente nel mondo arabo, con 140 mila soldati a stelle e strisce diventati bersagli di un terribile gioco al massacro. Qualche segnale positivo Nello scenario cupo dell’Iraq postbellico, i segnali positivi però non mancano. La presenza militare americana nel cuore del Medio Oriente ha provocato scariche di adrenalina in tutta l’area. La Siria ha mostrato disponibilità al dialogo, l’Arabia Saudita ha finalmente cominciato ad arrestare i seguaci di Osama ospitati sul proprio territorio, l’Iran ha messo in carcere alcuni leader di primo piano di Al Qaeda e anche israeliani e palestinesi, pur tra le solite mille difficoltà, sono apparsi più volenterosi a cercare soluzioni al conflitto. Nell’Iraq devastato e pericoloso, è al lavoro un Consiglio di governo i cui 25 membri incarnano le varie realtà del Paese (compresi i cristiani) e che costituisce la prima forma di organismo rappresentativo che la maggioranza degli iracheni hanno mai visto in vita loro. Il cammino verso la nuova Costituzione sarà lungo, le prime elezioni probabilmente non avverranno che nella seconda metà del 2004. Ma l’ideale di un Iraq democratico su cui il presidente George W.Bush ha scommesso molto - compresa forse la propria rielezione il prossimo anno - comincia a venir recepito come un traguardo possibile anche all’ interno del Paese uscito dai decenni della tirannia. Nuovi potenziali alleati L’America si trova a discutere con potenziali alleati che sarebbero stati impensabili solo all’inizio di quest’anno. Negli Usa, per esempio, vengono indicati sempre più spesso come ottimi interlocutori due religiosi sciiti di idee progressiste. Uno si chiama Sayyid Iyad Jamaleddine, ed è una guida molto seguita nel mondo della maggioranza sciita del Paese che cerca di tornare a contare dopo le repressioni del regime sunnita di Saddam. L’altro è Sayyid Hussein Khomeini e la sua disponibilità al dialogo con l’America è uno dei segnali più interessanti di ciò che sta cambiando nel Golfo: si tratta del nipote dell’Ayatollah iraniano che fu un nemico storico degli Usa. Per il giovane Khomeini, c’è spazio per la nascita di un Iraq laico e anche per un Iran guidato da una democrazia liberale. Parole che suonano come musica, in una Casa Bianca in difficoltà e in crisi di consensi. |
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Pace: «USA-IRAQ: Scenari da un dopoguerra difficile», di Marco Bardazzi, Tracce, 1 Settembre 2003 |