La passione di riaffermare il valore di ogni uomo |
Le immagini del conflitto: |
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di Mina Come si chiama quel groppo in gola che ti soffoca quando vorresti trasformare definitivamente lo sconquasso che abbiamo sotto gli occhi in un’umanità rigenerata? Come si chiama quel bisogno di non rassegnarsi all’orrore, senza per questo cercare di scappare in un mondo che non esiste? Forse si chiama “pace”. Forse dovrebbe chiamarsi pace. Forse potrebbe chiamarsi pace se anche questa parola non dovesse essere sbraitata come un urlo di guerra. O perché magari non semplicemente rispetto per ogni uomo e la sua dignità? Al di là di ogni definizione, sono sicura che qualche fottutissima via di scampo esiste. Ci deve pur essere questa esigenza struggente che ci fa rivolgere gli occhi da un’altra parte, quando guardiamo le madri straziate o gli uomini catturati e mostrati come trofei. Ci deve essere, perché non mi rassegno a sentire i bollettini di guerra, in cui vengono snocciolate le cifre delle vittime, come in un registro di contabilità notarile. Ci deve essere questa passione di riaffermare il valore di ogni uomo, quando non posso guardare gli uomini fatti a pezzi come numeri di uno schifoso war-game. Ci deve essere, perché ogni bambino che guarda la televisione e vede l’orrore volge la faccia verso la mamma che gli sta accanto e cerca nei suoi occhi l’amore che la realtà nega. Ringrazio mio padre e mia madre, che mi hanno insegnato l’amore e il vero senso di rispetto per ognuno, a costo di stare tra le vittime, invece che tra gli assassini. Che non mi hanno mai comandato di ammazzare, che mi hanno insegnato che c’è un possibile amore per il quale è necessario o giusto dare la vita, senza però mai chiedere che altri la debbano sacrificare. Qui sta tutta la questione. Non credo che lo schifo della guerra possa essere azzerato con gli slogan urlati, con la violenza delle parole d’ordine scandite sulle piazze. C’è un antidoto che tutti abbiamo sperimentato, quando qualcuno ci ha aperto la mente, quando ci siamo commossi davanti ad un’opera d’arte, quando una parola autentica ci ha fatto comprendere un pezzetto in più di una possibile verità. Il vero modo per parlare di pace è una rigenerazione di cultura e di educazione, in cui si affermi, come coscienza di tutti, la volontà che l’istinto omicida, terribilmente presente in ciascuno di noi e non solo in un nemico esterno, non vinca sulla faticosa scelta della giustizia. Così che ogni giudizio e azione siano fattori di uguaglianza, di libertà e di civiltà. Appunto. Non mi voglio rassegnare alla fattualità tragica degli eventi. Quel senso sacrale di certezza che le nostre madri ci hanno insegnato non deve andare perduto di fronte all’assalto delle immagini di guerra. E detesto la schifosa, costante, demagogica sollecitazione al dovere di schierarsi. I morti sono morti, non sono né americani né iracheni. I potenti, i sanguinari e gli incolti non accettano che ci siano veri maestri, vere madri, che sanno ancora insegnare che l’uomo vale e che l’amore è l’unica arma per vincere. Questa dovrebbe essere la vera cultura. E si rivolterà nella tomba il criminale nazista Hermann Goering che diceva: “Quando sento qualcuno parlare di cultura, la mano mi corre al revolver”. |
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Pace: «Le immagini del conflitto: La vera pace dentro noi stessi», di Mina, la Stampa, 12 Aprile 2003 |