Pace |
Grandi cortei pacifisti sono l'ultimo di una serie di episodi che
stupiscono lo stato ebraico. |
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di Fiamma
Nirenstein, L'EUROPA, nella percezione d'Israele, è lontana, pericolosamente lontana dal Medio Oriente; il piano di pace detto «Road Map» che il Quartetto aveva preparato come proposta unitaria e che sembrava l'unica prospettiva immediata di ripresa dei colloqui rischia di diventare irrilevante a causa del ruolo ostile che gli europei, sempre di più, stanno acquistando agli occhi dello Stato ebraico. Lo ha scritto preoccupato uno dei commentatori più rispettati e anziani, Zeev Schiff, sul quotidiano intellettuale d'Israele, «Haaretz», ed è solo una delle voci stupite che dal Paese si leva in questi giorni parlando dell'Europa. Ci sono dati nuovi e vecchi, e naturalmente sorprendono le immense manifestazioni per la pace che agli occhi di un Paese che ha ricevuto 29 missili da Saddam Hussein, lo stesso che dà 25mila dollari a ogni famiglia di terrorista suicida, appaiono incomprensibili. Prova ne sia il fatto che in piazza a manifestare per la pace con l'Iraq c'erano poco più di un migliaio di persone, anche se il 20 per cento degli israeliani si dichiara contro la guerra e dice di essere molto più preoccupato dagli attentati palestinesi che non dal Raíss di Baghdad. Israele guarda all'Europa con stupore per vari motivi: finalmente dopo quattro mesi il membro del Parlamento europeo François Zimeray è riuscito a raccogliere 157 firme su 626 deputati per indagare sui dieci milioni di euro al mese donati dall'Ue all'Autonomia Palestinese e che si teme siano in parte finiti in operazioni terroristiche; eppure la resistenza di Strasburgo a indagare è enorme e molto attiva, sembra proprio che il commissario europeo agli Esteri Chris Patten desideri questa indagine «come un buco in testa», come ha dichiarato. Il nodo attuale Europa-Israele sta diventando molto stretto: a quello che Israele giudica un atteggiamento sbilanciato sul conflitto israelo-palestinese, si aggiunge la spaccatura europea sulla guerra a Saddam in cui giocano un ruolo chiave proprio la Germania e la Francia, i due Paesi di cui è impossibile per lo Stato ebraico ignorare il passato antisemita, sia pure fatte le dovute differenze. Sia l'Anti-Defamation League, sia vari gruppi di studio su quest'ultimo tema, fra i quali quello del professor Robert Wistrich dell'università di Gerusalemme, mettono inoltre in guardia da un teorema che ritengono possa invadere l'opinione pubblica europea: l'America fa male ad attaccare l'Iraq, lo fa per difendere i suoi interessi rappresentati in Medio Oriente da Israele; Israele si comporta in maniera riprovevole verso i palestinesi; gli ebrei, difensori di Israele, sono riprovevole parte di questa guerra. La crescita degli episodi di antisemitismo unita alla presa di posizione della Germania ha fatto dire al famoso commentatore israeliano della Cnn Hemi Shalev: «La mente tedesca ha il talento di non fare errori se non i più spaventosi». Sulla Francia poi i giudizi sono devastanti. «Tutto quello che Israele ha sofferto negli anni dai governi francesi che si sono allineati agli arabi lo soffrono ora gli Usa... Coloro che conoscono l'atteggiamento di Parigi, ostile a Israele in tempi di sofferenza e crisi, non saranno sorpresi dal tentativo di rompere le fila del mondo libero che desidera solo disarmare un regime fascista distruggendo il suo arsenale di armi di distruzione di massa... e tutto questo per i suoi interessi»: così Uri Dan, un giornalista vicino a Sharon. Ma anche la sinistra è critica rispetto a quello che accade oggi in Europa: sempre «Haaretz» nel suo editoriale, uno spazio molto spesso dedicato a criticare Sharon e Netanyahu, ha respinto senza mezze parole con tutte le sue forze l'episodio più drammatico di questi giorni: la Corte Suprema belga ha accettato (sembra, adesso, sotto l'influenza del governo) di mettere sotto processo israeliani eventualmente connessi all'episodio di Sabra e Chatila che non abbiano immunità diplomatica, e quindi anche Sharon dopo la scadenza del suo mandato. «Haaretz» ricorda le atrocità commesse dai falangisti a Beirut, in un territorio in cui l'esercito israeliano era responsabile, si chiede che cosa abbia a che fare il Belgio con questa vicenda, si chiede quale autorità abbia un Paese dal passato coloniale scandaloso e insanguinato, si chiede come mai abbia deciso proprio di processare gli israeliani mettendosi al di sopra di tutte le giustizie del mondo, dato che Sharon ha già avuto un processo in Israele e uno negli Usa dove l'attuale primo ministro aveva citato in giudizio il settimanale «Time», e si stupisce che proprio gli israeliani, con tanti sospetti o accertati criminali di guerra che si aggirano per il mondo, debbano sempre essere presi di mira: falangisti e libanesi vari, responsabili più direttamente di Sharon nella strage e mai giudicati, la giustizia belga non li ha presi nemmeno in considerazione, dice il giornale.
Tuttavia Israele ha dato grande rilievo alla decisione del sindaco di Roma
Walter Veltroni di non incontrare Tarek Aziz dopo la sua discriminazione di
un giornalista israeliano, e spesso si rallegra dell'atteggiamento italiano,
spagnolo e degli altri Paesi europei che reputa meno antisemiti e insieme
più equilibrati nel giudizio sulla guerra. La reazione di Israele a quelle
che ritiene ingiustizie è tutt'altro che timida: il ministero degli Esteri
moltiplica le azioni e gli incontri con i Paesi europei per combattere e
prevenire l'antisemitismo, ma non si illude che bastino le parole. Il
segnale dato da Netanyahu ritirando dal Belgio l'ambasciatore, la reazione
dei commentatori che hanno puntato il dito sugli interessi economici del
Belgio e i molti episodi di antisemitismo, persino il curioso embargo
stabilito da un grande albergo di Eilat, il Princess, agli ospiti belgi,
sono segni di nervosa saturazione; Sharon forse tenterà adesso di convincere
Bush che la prossima «Road Map» non considera come una tappa obbligata
Strasburgo. |
Pace:
«Grandi cortei pacifisti sono l'ultimo di una serie di episodi che stupiscono lo
stato ebraico. Israele-Europa, i giorni dell'incomunicabilità», di Fiamma
Nirenstein, La Stampa 20.2.2003