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di Morandini Piero
Ricercatore di Biologia dell’Università di Milano, docente di
Biotecnologie Agrarie
La selezione naturale e
quella operata dall’uomo danno lo stesso tipo di risultato? Esaminiamo due
piante che crescono vicine. Immaginiamo che, a causa di una mutazione, una
di queste due cresca più velocemente o diventi alla fine più alta. Avrà
allora più luce a disposizione e quindi farà più fotosintesi e avrà più
progenie. Questo significa che il gene mutato sarà favorito rispetto a
quello originale dalla selezione naturale. Altro carattere vantaggioso in
natura è la capacità di sfruttare dosi minime di nutrienti, perchè questi
spesso scarseggiano, come ad esempio in un prato (l’affollamento significa
competizione e quindi scarsità di risorse) o su una roccia colonizzata da
licheni. Altre volte viene ostacolata in vario modo la germinazione o la
crescita delle altre specie (es. la salvia che produce e disperde nel suo
intorno sostanze tossiche per le altre specie vegetali). Quindi un gene che
porta all’aumento della produzione di queste sostanze favorirà l’individuo
che lo porta. Lo stesso vale per un gene che porta all’accumulo, dentro alle
cellule, di pesticidi (antiparassitari) naturali, cioè di sostanze che
interferiscono con il ciclo vitale di una specie parassita e quindi dannosa
(esempi: un insetto che divora le foglie o un fungo che colonizza le
foglie). In natura non si trovano facilmente piante con semi o frutti di
grande dimensione: un grosso seme implica un grosso investimento in termini
di riserve e pochi semi, visto che le risorse sono limitate. Pochi semi
significano pochi tiri sulla roulette della vita e poche possibilità, per
cui non è un carattere solitamente favorevole. è importante che i semi
vengano dispersi lontano e in gran numero, così da conquistare nuovi spazi.
è meglio che il seme sia resistente all’attacco di funghi e batteri, che non
marcisca facilmente, che non sia distrutto da larve o roditori, per cui sarà
favorito il seme che accumula sostanze tossiche come composti che rilasciano
cianuro quando le cellule sono frantumate. Adesso arriva la sorpresa: tutti
questi caratteri, di grande importanza per la sopravvivenza ed il successo
in un ambiente naturale, sono assenti o molto ridotti nelle piante
coltivate, perché l’uomo trova questi caratteri indesiderabili e quindi ha
sempre scelto, ove possibile, gli individui che non li presentavano (in
pratica dei mutanti, naturali, ma pur sempre mutanti).
Provate i semi di ricino
La maggior parte dei cereali sono di norma più bassi (nani) rispetto ai
corrispondenti selvatici o alle varietà più antiche, cioè quelle meno
selezionate dall’uomo (questo è vero per grano duro e tenero, riso, orzo,
avena...). Le erbacce crescono così velocemente da soffocare le piante
coltivate (lo sa benissimo chi coltiva un orto!). La fertilizzazione dei
campi rende le piante coltivate molto produttive, ma esse perdono spesso la
capacità di accontentarsi di piccole quantità di nutrienti. Le specie
coltivate hanno in genere un contenuto molto ridotto di pesticidi naturali;
questi sono spesso dannosi non solo per le loro “pesti” (insetti, erbivori,
patogeni...), ma anche per l’uomo. Volete un esempio? Provate a mangiare dei
semi di ricino. L’uomo ha sempre selezionato per semi o frutti di grandi
dimensioni. Poche mele grandi sono molto meglio di tante mele piccole; lo
stesso per i chicchi dei cereali, i pomodori, le pesche... praticamente
tutti i frutti e i semi delle specie coltivate. Altro esempio eclatante
riguarda la dispersione dei semi: in natura i semi vengono dispersi
velocemente, mentre è desiderabile per il contadino che i semi rimangano
sulla spiga (si veda la differenza tra avena selvatica e avena coltivata).
Se non ci credete, provate a raccogliere un quintale di mais come pannocchie
sulla pianta oppure come singoli chicchi da terra, magari dopo un bel
temporale.
La legge dello spaventapasseri
I semi delle piante coltivate, anche quando cadono per terra, difficilmente
riescono a sopravvivere all’inverno e a riprodursi l’anno successivo: molti
sono infatti mangiati dagli uccelli proprio perché appetitosi (anche a loro
piacciono pochi semi, grossi e che non facciano venire il mal di pancia).
Quelli che sfuggono anche ai roditori, in genere marciscono proprio a motivo
del basso contenuto in pesticidi naturali. In altre parole, anche a
volatili, topi e funghi piacciono le piante selezionate dall’uomo e per
questo l’uomo deve costantemente difenderle (è la legge dello
spaventapasseri). E così via per molti altri caratteri: quelli desiderabili
per l’uomo sono spesso poco desiderabili per la natura. La selezione
naturale e la selezione operata dall’uomo vanno inesorabilmente in direzioni
opposte.
Transgenico e biologico
Esistono alcuni casi in cui questo non è vero: varietà selezionate per
l’agricoltura biologica presentano a volte un aumento nel contenuto di
pesticidi che possono essere tossici per l’uomo (una varietà di sedano
conteneva degli psoraleni, sostanze mutagene e cancerogene, in quantità 8
volte superiore rispetto alle altre varietà convenzionali). Questa selezione
è simile a quella naturale, ma così facendo, non si migliora necessariamente
la qualità del prodotto. Cosa succederà allora se una varietà transgenica si
incrocia con una pianta selvatica? Il carico genetico negativo (l’insieme
dei geni sfavoriti dalla selezione naturale) che viene posto sull’ibrido,
renderà minime o nulle le possibilità di successo dell’ibrido stesso
rispetto al selvatico. Anche se ammettessimo il caso impossibile in cui
tutti i geni della pianta coltivata siano recessivi (che vengono cioè
nascosti dalle copie ancora selvatiche del gene) e che l’ibrido abbia il
vigore del genitore selvatico, allora questi caratteri sfavorevoli
tenderanno inesorabilmente a saltare fuori nelle generazioni successive e a
rendere la pianta un pessimo corridore nell’ambiente naturale. In pratica,
anche se la “contaminazione” genetica avviene, i geni della pianta
transgenica non hanno una grande probabilità di propagarsi. Possiamo
concludere che l’agricoltura (o le biotecnologie ad essa applicate) non
comportino rischi? Certamente no. Infatti la storia dell’agricoltura
testimonia che ci sono stati alcuni esempi in cui le pratiche agricole hanno
portato a nuovi problemi perché hanno prodotto erbe infestanti ancora più
resistenti. Di fronte però al merito di un’agricoltura che riesce a sfamare
circa 6 miliardi di esseri umani, direi che i rischi siano accettabili.
Obiezioni fantasiose
Una delle obiezioni più frequenti alle biotecnologie applicate al campo
vegetale che prevede scenari apocalittici (“non si possono prevedere le
conseguenze di una contaminazione genetica delle specie selvatiche da parte
delle piante transgeniche”), mi sembra del tutto infondata e la potrei
definire come la grande bufala che viene propagata ad arte perché
solo il 3-4% della popolazione ha ancora un contatto con la terra e
l’agricoltura. Se non siete ancora convinti provate a pensare alle grandi
differenze tra le piante coltivate e quelle selvatiche: nessuno semina le
erbe infestanti (le erbacce nel gergo comune), eppure esse conquistano
subito ogni spazio disponibile. Molte infestanti presentano un vigore ed una
capacità di rigenerazione impressionante. Le piante coltivate hanno bisogno
di essere seminate, difese dall’invadenza delle infestanti o dagli attacchi
dei parassiti, il seme una volta maturo deve essere raccolto e mantenuto in
condizioni controllate di temperatura ed umidità. Quando sono calpestate
difficilmente si riprendono e raramente rigenerano da frammenti. Chiunque
abbia un orto conosce tutte queste caratteristiche e per questo gli ibridi
spontanei fra piante coltivate e selvatiche solo in rarissimi casi crescono
vigorosamente e si propagano senza l’aiuto umano. L’uomo, prendendosi cura
delle piante coltivate, sopperisce alla loro grande debolezza e ne permette
la riproduzione perché queste non sopravviverebbero senza l’uomo che poche
generazioni.
Coltivate un orto
Uno studio pubblicato un paio di anni fa ha confermato queste poche idee: le
piante coltivate si estinguono rapidamente nell’ambiente naturale e quelle
transgeniche non fanno eccezione perché sono anch’esse piante coltivate
frutto dell’opera dell’uomo. Forse qualcuno inorridirà, ma mi piace vedere
questo come una forma di simbiosi in cui l’uomo le genera e poi si fa carico
del mantenimento di queste specie vegetali e queste, dal canto loro,
provvedono a sfamarlo. Finora abbiamo parlato di contaminazione genica tra
specie selvatiche e specie coltivate e abbiamo concluso che i rischi di
creare super-erbacce sono ragionevolmente bassi per cui vale la pena correre
il rischio a motivo dei benefici delle piante coltivate (transgeniche o
meno). Un discorso simile si può fare per la “contaminazione” tra varietà
diverse della stessa specie (esempio: tra un mais convenzionale e uno
biologico o transgenico). In questo caso si parla di “flusso genico” (la
parola “contaminazione” è stata inventata da chi vuole dare una connotazione
negativa al fenomeno) ed è sempre avvenuto senza che si siano verificate
catastrofi o creato mostri. Trattenete questo messaggio: le piante coltivate
non sono piante naturali! Occorre recuperare questo concetto e il modo
migliore è iniziare a coltivare un orto, anche piccolo. E se qualcuno verrà
ad agitarvi lo spettro della “contaminazione genetica”, bene, fatevi una
risata e poi provate a spiegargli la questione. Buon lavoro e attenti alle
pietre (o ai pomodori).
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