Meditazioni |
«Non siamo in grado di fare grandi cose. |
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di Vincenzo La
Gamba L' odierna liturgia é la parabola di Gesù dei servi e dei talenti. Gesù racconta, secondo il Vangelo di Matteo, che un padrone diede a tre dei suoi servi rispettivamente cinque, due ed un talento. Dopo tanto tempo, il primo riuscì a guadagnare altri cinque di talenti, il secondo altri due ed il terzo, invece, lo sotterrò senza ricavare nessun usufrutto. Un talento era, allora, equivalente a Kg 43,2 di oro e di argento e pari ad un salario di oltre 6000 giornate lavorative. Il padrone, rimproverandolo aspramente, lo chiama fannullone e malvagio: "Sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio talento con l'interesse". Il padrone gli impone addirittura di consegnare il talento a chi ne aveva totalizzato già dieci: "Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha!". Nella fattispecie noi cristiani dobbiamo assumerci il rischio di investire i nostri talenti nella costruzione del Regno di Dio, nella nostra vita privata, nel nostro lavoro e nel sociale.
Il contrario é invece
rinunciare ad essere persona cristiana; é sotterrarsi in vita con i nostri
valori conservati. Uno degli aspetti dell'odierna parabola coinvolge la fede e la grazia di Dio. Partiamo dal fatto che in essa il Padrone dei "servi" rappresenta Gesù Cristo. I "servi" siamo noi cristiani, ai quali viene tramandato il messaggio di fede e di salvezza nel tempo dell'attesa, mentre é rimandato il ritorno del Signore, cosi come ci viene narrato oggi nella prima lettera di San Paolo ai Tessalonicesi. C'é chi vede nelle fede e nella grazia di Dio un qualcosa da difendere e da proteggere. Certamente non é quello che vuole Gesù. Egli vuole che aumenti la nostra fede per arrestarne la crescita. Ecco perché Gesù aspramente condanna quel concetto di tradizione che consiste nel trasmettere meccanicamente quello che si é ricevuto, senza vitalizzarlo con un contributo personale ed umanitario. La vita é il primo e fondamentale dei "talenti" datoci da Lui come dono inestimabile. Un talento equivale ad una vita. Il talento é, oggi più che mai, un dono di Dio Padre e rappresenta tutto ciò che abbiamo personalmente nell'ordine temporale e spirituale; tutto ciò che é dentro e fuori di noi. Chi lo "sotterra" non é un buon servo di Dio, che non sa cosa farsene di gente timorosa, senza spirito di iniziativa e sempre lì nell'ozio totale. In questo mondo, in cui regna sovrano l'egoismo, ci sono pochi che si vogliono complicare la vita e sono anche pochi coloro che vogliono incanalarsi in un impegno serio per il bene degli altri. C'é la tendenza a vivere una vita fondata sull'agiatezza, sugli allori e per se stessi, diventando apatici, disillusi e fossilizzati. Viviamo un'era arida e di apatia morale, in cui sembra che anche le radici del cuore si stiano disseccando.
Come il servo fannullone,
molti di noi non sperperiamo il talento ma lo sotterriamo; ci accontentiamo
di mantenere intatto, ma infecondo, il "deposito della fede". Non é quello
che Dio pretende da noi! Così come ha fatto Madre Teresa di Calcutta che dei "talenti" ricevuti da Dio ed accettati secondo la Sua volontà, ne ha tratto un incommensurabile profitto moltiplicandoli per mille, ogni volta che li distribuiva ai poveri del mondo. Questo famoso detto di Madre Teresa di Calcutta racchiude nella sua essenza il significato della parabola odierna: "Noi non siamo in grado di fare grandi cose. Dobbiamo fare solo piccole cose con grande amore". Ecco. Ella ha messo a disposizione quell'immenso "deposito di fede" a beneficio dei "più poveri dei poveri", con totale dedizione ed incondizionata volontà. Rimarrà una delle più autentiche "serve" di Dio dell'era moderna, al contrario del terzo "servo" della parabola, che conservò sottoterra quel "talento" che non fruttò niente. Madre Teresa più che proprietaria del "talento" ne é stata, durante la sua nobile esistenza, l'amministratrice del "deposito di fede". Il Papa Giovanni Paolo II l'ha dipinta recentemente come un "dono di Dio alla Chiesa e al mondo, al fine di ricordare a tutti la supremazia dell'amore evangelico, specie quando é espresso nell'umile servizio dell'ultimo dei nostri fratelli e sorelle". Ella ha portato a compimento quello che Gesù ha parafrasato in questa parabola domenicale e cioè che la fede ed il bene della grazia di Dio non sono capitali da "sotterrare". Approfittiamo del tempo accordatoci -non sappiamo fino a quando- per fare fruttare al massimo il talento che ci viene giornalmente offerto da Dio, come "deposito della nostra fede".
Questa certezza é l'anima
stessa dell'odierna Liturgia. |
Meditazioni: «Non siamo in grado di fare grandi cose. Facciamo solo le piccole ma con grande amore», di Vincenzo La Gamba - America Oggi, New York, Domenica 17 novembre 2002, XXXIII di Tempo ordinario