il mio Natale

 di Umberto Di Stilo

 

 

 

 

La carta rossa del torrone
(lettera ad un amico) [1]


     Caro Pino,

imperiosa ed improvvisa mi è venuta la voglia di scriverTi.

Non l'ho mai fatto, è vero, ma che importa? Per tutte le cose c’è una “prima volta”; perché non dovrebbe esserci anche per scrivere una lettera ad un compagno di giochi e di studi; all’amico inseparabile di tutta una vita?

 Che importa, inoltre, se forse tra qualche settimana avremo modo di incontrarci e di rituffarci insieme nel fantasmagorico mondo dei ricordi? Intanto scrivo. Scrivo per me, per soddisfare il mio intimo bisogno di trasferire sulla carta alcune delle percezioni che ho avvertito nei giorni iniziali di questo dicembre dopo che a Torino, casualmente, ho vissuto le prime, intense, sensazioni natalizie di quest'anno. 

 

Sensazioni bellissime che hanno avuto la forza di portarmi indietro nel tempo, fino agli anni della nostra infanzia e dei nostri primi presepi; di quei nostri presepi fatti col muschio che pazientemente andavamo a trovare nel castagneto di “Grosso” e sui sentieri di contrada “Rumbolo” e che popolavamo con i pastori di terracotta che erano appartenuti ai nostri genitori ed ai nostri nonni o con quelli -sicuramente più “moderni”- che col gesso, nella sua casetta posta all’angolo tra via Diaz e Salita Santa Croce del rione Montebello, produceva in serie Lorenzo Demasi. Presepi ideati con notevole anticipo nelle lunghe ore di vita collegiale  (qualche volta abbiamo anche provveduto a schizzare un vero e proprio progetto!..) e che riuscivamo a realizzare nelle ore immediatamente successive al nostro rientro da Reggio o da Palmi (per me, qualche anno, anche da Nicotera) centri nei quali frequentavamo i nostri corsi scolastici medi e superiori.

All’epoca, la maggior parte dei concittadini ci  considerava dei veri e propri privilegiati giacché eravamo tra i pochissimi ad avere la possibilità di andare a studiare a Reggio, onore fin'allora, quasi sempre, di esclusiva pertinenza dei ricchi “figli di papà”.

Noi non facevamo parte di questa categoria sociale, però abbiamo avuto la fortuna, questa sì, di nascere ed essere educati in famiglie nelle quali era molto avvertita la necessità di rompere col passato e di mirare all’istruzione non come ad un lusso ma come ad una vera e propria necessità, se si voleva guardare al futuro con maggiore tranquillità.

A quei tempi c'era il convincimento che i figli dei contadini dovessero saper solo di zappa e di pota, mentre ai figli degli artigiani era demandato il preciso compito, non sempre facile, di continuare il lavoro dei padri. Se mai qualcuno, comunque, avesse dimostrato particolare attitudine allo studio, tutt’al più, tramite l'interessamento del parroco, poteva andare in seminario.

Noi no, non imboccammo la strada per Mileto, sicuramente più comoda e meno gravosa per la famiglia. Noi, in una tersa mattina di ottobre prendemmo posto sul calesse di “Cenzella”[2]  e, accompagnati dai rispettivi papà, ci dirigemmo alla stazione di  Rosarno da dove, con una vecchia, sporca, maleodorante e malridotta carrozza di  terza classe, proseguimmo fino a Reggio.

E’ passato quasi mezzo secolo e il ricordo è ancora nitido e ricco di particolari....

Erano, quelli, i difficili anni dell'immediato dopoguerra e la nostra partenza per il collegio fu preceduta dalla obbligatoria spedizione della tessera annonaria. A Galatro, come in moltissimi altri paesi della Calabria e dell'Italia, c’erano da curare le numerose piaghe sociali generate dall'appena concluso conflitto mondiale e la scuola passava in second’ordine.

Scrivo per me, certo, ma scrivo anche per te, che dei miei ricordi sei coprotagonista, giacché insieme abbiamo vissuto gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della gioventù; insieme siamo stati nei momenti di gioia ed in quelli meno felici; nei giochi e nello studio, quasi che le nostre vite fossero destinate  a percorrere sempre strade parallele.

Ti dicevo, dunque, delle “sensazioni natalizie” provate qualche sera addietro a Torino. Ebbene, mi trovavo all’interno della “Rinascente”, ove ero entrato perché curiosando tra i vari settori merceologici, e soprattutto perché stando al riparo dal freddo, impiegassi buona parte delle due ore che mancavano alla partenza del treno che mi avrebbe riportato in Calabria. E’ stato un ragazzo a darmi la “scossa” ed a farmi sentire lungo la schiena quei brividi freddi che, solitamente, si avvertono in pochi ma importanti momenti della vita; è stato lui a provocare il mio improvviso viaggio a ritroso nel tempo.

Avrà avuto undici-dodici anni ed era intento a scegliere le statuine per il presepe che di lì a qualche settimana avrebbe realizzato tra le sue pareti domestiche. L'ho sentito spiegare alla giovane, paziente ed elegante mamma che gli stava accanto come intendeva utilizzare le varie statuine...: -  questa la sistemerò bene in vista in cima alla collina. Con la mano messa sopra gli occhi a mo’ di visiera mi fa pensare a chi, frastornato dal fulgore della stella cometa, cerca di scrutare in lontananza quasi per trovare una spiegazione all’eccezionalità dell'avvenimento...-

Aveva in mano la statuina di un pastore ritratto in un atteggiamento molto simile a quello che dalle nostre parti, con definizione assai efficace da sempre è chiamato  “u ‘ncantatu da’ stija..”.

Poi, dopo averla deposta nel carrello, lasciando intuire di avere le idee ben chiare sul presepe che intendeva realizzare, gli ho sentito dire: - lo stazzo per le pecore quest'anno lo vorrei sistemare in prossimità del fiume...  Perché riesca bene, però, devo comprare altre pecore...  Voglio acquistare anche un bel ponticello di sughero... Mamma, aiutami a sceglierlo...-

Osservava meticolosamente tutte le statuine ed i gruppi di pastori nei loro tipici atteggiamenti: prendeva quelle figurine nelle mani, le girava e le rigirava, le avvicinava e le allontanava, le metteva in posizione ideale di luce e, alla fine, su ognuna di esse fermava un attimo la sua attenzione come per studiare il punto esatto dove, nel suo presepe ancora semplicemente ideato, potesse essere adeguatamente sistemata. Forse, in quei pochi attimi per ogni statuina riusciva a ideare anche l'ambientazione necessaria. Per questo gli si illuminavano gli occhi. Poi decideva se acquistare o meno. E lo faceva con la massima determinazione; non l’ho mai visto tentennare.

Fingendo di voler scegliere anch'io delle statuine  ho seguito tutti i movimenti del ragazzo. Ho studiato ogni suo atteggiamento, ogni sua espressione e man mano che i minuti passavano percepivo sempre meglio il suo stato d’animo, la sua impazienza e la sua voglia di tuffarsi nel clima elettrizzante della realizzazione del presepe. Mi sono rivisto bambino quando, pensando alla piccola e fantasiosa riproduzione dello scorcio di Betlemme che avrei dovuto realizzare tra le pareti domestiche, anch’io provavo una carica di entusiasmo così forte, da vivere con notevole anticipo la calda ed intima atmosfera del Natale.

Mi sono rivisto nel negozio di Ribotta, sul corso Garibaldi di Reggio Calabria, allorché, la sera prima delle vacanze natalizie, andai ad investire in pastori per il presepe i pochi spiccioli che ero riuscito a mettere da parte durante gli ultimi mesi. Quelle statuine, avevano stimolato la mia fantasia sin da quando, già a metà novembre, le avevo viste ben esposte in vetrina.

Ogni sera dai “Villini Svizzeri” scendevo sul corso per inchiodarmi davanti a quei pastori di cartapesta che con la loro originalità e con la loro bellezza facevano galoppare la mia creatività. Osservando una ad una quelle statuine progettavo la realizzazione di un presepe in cui ci fossero deserti attraversati da carovane di cammelli, paesaggi collinari e montani popolati da umili artigiani colti nei loro più caratteristici atteggiamenti: dall'immancabile zampognaro, al pastore che procede verso la grotta con l'agnellino sulle spalle, dalla popolana che reca in dono a Gesù modesti panni a quella che va ad offrire poche ricotte, una forma di cacio ed una gallina...

Quell'ormai lontana sera del 21 dicembre 1948, però, da Ribotta trovai ben poco da scegliere. Tutti i pastori erano stati venduti ed io, che avevo atteso l’ultimo momento per procedere ai miei piccoli acquisti, pur con grande delusione, dovetti accontentarmi di ciò che era rimasto.

Arrivai a Galatro con due zampognari e sei suonatori di piffero, tutti perfettamente uguali tra loro, e mio padre, a ben ragione, ironizzò chiedendomi se per caso non avessi deciso di caratterizzare il mio presepe mettendo sopra una numerosa “banda di pipitari”.[3]

 No. Il mio non voleva essere un segno distintivo, e Papà lo sapeva benissimo. Avevo acquistato tutti quei suonatori perché mi sarebbe enormemente dispiaciuto far passare un Natale senza arricchire il mio presepe di qualche nuova statuina.

Quell’anno diedi gli ultimi ritocchi al presepe e disposi i pastori lungo le stradine che sul soffice muschio avevo tracciato con la sabbia, nella primissima mattinata del 25 dicembre, quando in chiesa stava per avere inizio il sacro rito della Messa.[4]

Camillo non era ancora nato e Rodolfo, il più piccolo dei fratelli, fu incaricato di deporre nella mangiatoia del presepe la statuina di Gesù Neonato soltanto quando rientrai a casa dalla messa e la luce dell'alba, rischiarando la valle del Metramo, faceva intravedere i neri e frastagliati contorni delle colline che, quasi in  un abbraccio affettuosamente  protettivo,  cingono l’abitato di Galatro.

Non è stata l'unica volta che completai il presepe all'ultimo minuto. Un anno - ma l’episodio dovresti ricordarlo bene anche tu - l'amico parroco Don Bruno Scoleri,[5] sera della Vigilia, prima di andare a dormire, venne in chiesa e con la sua consueta ironia ci raccomandò di sbrigarci. Comunque, qualora ci fossimo resi conto che non avremmo fatto in tempo ad  ultimare il presepe per l’ora della messa, ci raccomandò di approntare in un qualsiasi angolo del tempio almeno la sola  grotta. Ciò per consentirgli di rispettare la tradizione secondo la quale, durante la funzione religiosa, doveva adagiare sulla paglia della mangiatoia la bella statua di Gesù Neonato.

Ricordi? Completammo il nostro lavoro poco prima che le campane chiamassero a raccolta i fedeli ed aspettammo Don Bruno in sacrestia. Fu contento quando constatò che tutto era pronto e che, contrariamente a quanto aveva temuto, poteva celebrare la messa solenne davanti al presepe.

Quell'anno avevamo voluto rompere con la tradizione ravvivando la scena della Natività con qualcosa che sapesse di nuovo e moderno insieme e che mettesse a frutto la tecnica; soprattutto l'elet-tricità, per la quale da subito ti sei dichiarato negato.

Il nostro amico Parroco, in quella circostanza, era portato a diffidare sulla buona riuscita delle innovazioni tecnologiche. E non perché dubitasse delle nostre capacità creative ma perché diceva che troppe erano le modifiche che, tutte in una volta, volevamo apportare al classico presepe realizzato interamente col muschio e con tanti rami di leccio messi tutt'intorno, uno accanto all'altro, perché facessero da sfondo e nascondessero il muro. Non era convinto di ciò che gli dicevamo, Don Bruno, ma quella mattina di Natale, stropicciandosi gli occhi ancora assonnati, si entusiasmò davanti a quell' “effetto neve” che eravamo riusciti a realizzare mediante innumerevoli microscopici batuffoli di cotone che, appesi a sottilissimi quanto invisibili fili di seta, scendevano dal soffitto e si muovevano sotto il soffio costante del vento generato da un piccolo ventilatore che avevo sistemato dietro la grotta.

Sembravano fiocchi veri. La scena, inoltre, diventava sempre più realistica man mano che, grazie ad un gioco di luci che avevo creato utilizzando un vecchio giradischi,  su tutto il presepe era ben visibile il passaggio dalla notte al giorno attraverso il crepuscolo e l’aurora.

Per realizzare il presepe, quell'anno, in chiesa, iniziammo a lavorare il giorno successivo alla festa dell’Immacolata ma a tavolino, coi nostri schizzi di paesaggi e con i vari progetti in scala, cominciammo ad operare sin dai primi giorni di novembre. Quell'anno per la prima volta abbiamo "osato" allestire il presepe della chiesa rinunciando all'uso del tradizionale muschio e utilizzando la carta anche per le montagne. Don Bruno temeva per questa innovazione. Ma l'esito fu quanto mai soddisfacente perché la novità entusiasmò tutti i fedeli.

A proposito del nostro amico Parroco, ricordi l’ingenuo stratagemma a cui siamo ricorsi per farci comprare il torrone, uno dei vari anni che ci siamo assunti il piacevole e, per noi anche assai gratificante, incarico di realizzare il presepe all’interno della chiesa della Montagna? 

- Don Bruno - gli hai detto - dobbiamo realizzare il fuoco attorno al quale si scaldano i pastori.... Ci serve della carta velina rossa… -

“Angialuzzo” – il sagrestano tuttofare che sostava in chiesa e che, anche se brontolando, nel suo intimo era assai felice di stare a nostra disposizione - fu mandato al vicino tabacchino per comprare un foglio di carta velina del colore desiderato.

Avvolgemmo in un pezzo di quella carta la piccola lampadina e provammo ad accenderla dopo averla adeguatamente sistemata sotto i rametti che precedentemente avevamo tagliato a misura.

Mentre io, armeggiando coi fili elettrici, alternativamente accendevo e spegnevo quella minuscola lampadina sepolta sotto diversi legnetti, tu, indietreggiando lentamente nella navata, ti allontanavi dal presepe perché da “spettatore” potessi meglio osservare i risultati e cogliere le varie sfumature.

Don Bruno, seduto poco distante, seguiva i tuoi movimenti senza esprimere alcun parere.

- No. Non è quello che ci vuole. Questo non è rosso fuoco...  Mi sembra che predomini il violetto. No, no.. non va bene. -  Commentasti ad alta voce. Poi rivolgendoti direttamente all'amico parroco:

- Don Bruno ci vuole un foglio rosso... Rosso dev'essere… -  Sentenziasti convinto.

E con la voce marcasti in maniera evidente, l'aggettivo  “rosso”.

“Angialuzzo”, che di “rosso” gradiva in maniera particolare solo il vino, fu mandato immediatamente a trovare quel tipo di carta velina. Stava uscendo dalla chiesa allorché, inserendomi nel discorso, aggiunsi in maniera sarcastica: - E mi raccomando, Angialuzzo...: non tornare in chiesa se la carta velina non è veramente rosso fuoco.... -

Il sagrestano farfugliò qualcosa al mio indirizzo ed uscì facendo sbattere la porta alle sue spalle.

La cosa andò avanti per diversi, lunghi minuti e le prove si susseguirono alle prove. Poi tu, senza accennare alcun  imbarazzo e fingendo di avere avuto quasi una improvvisa folgorazione, rivolgendoti all’amico parroco, gli hai detto: - Don Bruno, ho trovato: per ottenere un convincente effetto fuoco ci vuole la carta in cui è avvolto il torrone. Si, si... la carta di quella buona qualità di torrone che è in vendita al negozio di “Donna Jolanda”[6]..... Mandate a comprarne almeno due “poglie”![7]… - 

Don Bruno rise simpaticamente. Poi, affondata la mano nella tasca della tonaca e tirata fuori dal portamonete la cifra ritenuta necessaria, mandò Angialuzzo a comprare un chilo di torroni non senza avergli raccomandato di provvedere che ci fossero almeno due “poglie” avvolte in carta rossa e che tutte le altre fossero accuratamente scelte tra quelle che, disponibili in negozio, erano confezionate con carta di altri colori perché, così facendo, almeno ci saremmo assicurata tutta la carta necessaria alla realizzazione di ogni altro tipo di  “effetto speciale”!

Inoltre autorizzò Angialuzzo a comprarsi un bicchiere di vino, motivo per il quale, almeno in quell'occasione, il sagrestano non trovò alcunché da ridire sul fatto che veniva mandato continuamente in giro e non sbuffò. Anzi, muovendosi agilmente sulle sue magrissime gambe, portò a compimento la commissione in pochi minuti tornando in chiesa con molti croccanti torroni che, in parte, sgranocchiammo subito ed in parte, come riserva per i giorni a venire,  ponemmo in un cassetto dell'armadio della sagrestia.

Un'incontenibile ondata di ricordi, tutti legati al lontano ma spensierato periodo della nostra infanzia, della nostra adolescenza e  della nostra gioventù sono improvvisamente tornati, nitidi e ricchi di particolari, sullo schermo della mia memoria anche quando il ragazzo della “Rinascente” chiedeva a sua mamma l'autorizzazione a comprare alcuni fogli di quella carta adesso usata per realizzare le montagne.

Mi sono ricordato che quando decidemmo di cominciare ad abbandonare il tradizionale muschio per introdurre nel nostro presepe l'uso della carta, realizzammo soltanto la grotta e la montagna da cui essa traeva origine. Temevamo che la novità potesse generare commenti negativi. Invece nessuno dei nostri giovani amici galatresi trovò alcunché da ridire. Nessuno ha disapprovato, segno evidente che la novità era piaciuta. In famiglia l'innovazione fu accolta con entusiasmo. Mio padre disse che la grotta sembrava veramente scavata nel fianco di una montagna tufacea e, a quanto ricordo, tua zia Bettina sottolineò l'impressionante verismo delle stalattiti che con intuito e pazienza (nonostante il tempo a disposizione fosse stato veramente poco) eri riuscito a realizzare nella grotta della tua Natività.

L'anno successivo estendemmo l'esperimen-to a tutto il presepe. Ci mettemmo d'impegno e, dopo pazienti ore di lavoro riuscimmo a modellare i vari sacchi di carta che eravamo riusciti a recuperare per tempo: io quelli di cemento che avevo raccolto in alcuni cantieri edili di Palmi (ove, all'epoca, frequen-tavamo la prima classe del liceo classico) e tu i sacchi di farina che Don Gabriele, su tuo preciso incarico,  aveva appositamente messo da parte lavorando nel tuo forno.

Questa volta i giudizi positivi furono unanimi, giacché, grazie alla carta ben modellata e poi adeguatamente spruzzata di verde e di marrone, le montagne sembravano più vere e tutto il paesaggio risultava più realistico.

Il muschio che ogni anno reperivamo sui sentieri di Rumbolo o tra le eriche e le felci di Grosso, da quell'anno servì solo per coprire di verde le pianure e per rendere più verosimili i prati su cui decidevamo di sistemare gli stazzi delle greggi ed i pagliai dei pastori.

Anche l'uso dei rami di leccio o di corbezzolo - (e qualche volta anche di mandarino ancora carichi di frutti, come vedevamo ogni anno in casa Crea) - che comunemente servivano da sfondo ai presepi,  scomparve man mano che nelle famiglie le possibilità economiche cominciarono a consentire l'acqui-sto di fondali riproducenti  scorci di paesaggi orientali o, molto più semplicemente, cieli stellati.

Ho lasciato la “Rinascente” con negli occhi un ragazzo intento a scegliere, tra le tantissime esposte, le statuine che più rispondevano alle sue esigenze artistiche e con nella mente un fiume di ricordi che, quasi per incanto, quel ragazzo aveva fatto nitidamente affiorare alla mia memoria. Ricordi popolati da amici perduti nel tempo e da episodi legati ad anni ormai lontani. Forse per questo, nell'uggiosa serata torinese, quei ricordi mi sono apparsi avvolti da uno strano ed inconsueto alone di luce che ha contribuito a farli diventare più belli e mi ha spinto a rimpiangerli come irripetibili schegge di vita che la nostalgia (o l'età?) concorre ad arricchire di poesia e di fascino...

Avviandomi verso “Porta Nuova”, confuso tra le diverse centinaia di infreddoliti torinesi che a quell'ora popolavano gli eleganti portici di Via Roma, sul filo dei ricordi mi sono ritrovato in casa di Don Angelo Lamanna. Insieme a te ed a tantissimi altri amici mi sono rivisto seduto attorno al braciere, sempre colmo di carboni ardenti, intento a discutere e concordare con l’attempato “grande invalido di guerra” sulla opportunità di rinnovare l’incarico  all’anziano “Cicciuni”  perché,  anche  quell’anno, nel rispetto delle antiche tradizioni, soffiando nel suo rustico e caratteristico otre, desse voce alla ormai imminente festività natalizia.

Don Angelo propose una sottoscrizione popolare. Con entusiasmo, ti dicesti disposto a provvedere personalmente alla raccolta delle offerte da consegnare allo zampognaro giorno di Natale, a conclusione della novena, pur sapendo che il suonatore avrebbe fatto sentire la sua querula voce anche durante le funzioni di Capodanno e dell'Epifania.

Stavano per avere inizio (o erano appena iniziati) gli anni sessanta e in molte famiglie galatresi, già segnate e smembrate dall’emigrazione, non c’era grande disponibilità economica. Ciononostante si contarono sulle dita di una sola mano quelle in cui ci fu negata un’oblazione per lo zampognaro.

Quell'anno, ogni sera, prima percorrevamo le linde e tortuose viuzze del rione Montebello in cerca di offerte e poi, dopo il tramonto, insieme a tantissimi altri amici ed amiche ci ritrovavamo in casa di Bruno (n.d.r. Bruno Marazzita), in quella del Colonnello o in quella dello stesso Don Angelo per dar vita a lunghe e chiassosamente allegre  tombolate o per entusiasmarci  dietro le sedici noccioline della “paria” da cui  facevamo dipendere il nostro possibile (ma assai fuggevole) arricchimento. Divisi in gruppi più o meno numerosi si giocava dappertutto. In casa di Pina[8] si giocava a tombola o a sette e mezzo, mentre in casa di Carmelo,[9] ogni sera, si ritrovavano gli appassionati dello “stop”: tuo fratello Rocco, Pasquale, Edoardo, Fortunato, Salvatore... e quelli del “mazzetto” e del “sette e mezzo”: Vittorio, Nicola, Luigi...   Altro punto d’incontro era la “tavernetta”[10]; ricordi?

Il nostro rifugio preferito, però, era la casa di Bruno. Il fabbricato è grande, ma più grande è sempre stato il cuore dei padroni. Non per niente per diversi decenni quella è stata la casa di tutti; il vero ritrovo familiare, l'ambiente ideale per trascorrere in maniera sana e in spensierata compagnia tutte le ore libere.

Nel periodo natalizio, poi, tutte le stanze venivano prese d'assalto dagli amici-giocatori. Chi preferiva giocare a carte (stop, mazzetto, sette e mezzo, briscola, scala quaranta, scopone, “calabrisella”...)  si ritirava nella stanza del caminetto. I molti, invece, che preferivano giocare a tombola (e noi eravamo tra questi) invadevano le altre assai ampie stanze di quello che, in passato, era stato il palazzo dei nobili De Felice e che Peppina e Angelina tenevano costantemente lindo...

Le sedie non bastavano per tutti e c'era chi trovava comoda sistemazione sui lettini delle varie stanze, sulle casse della biancheria, sulle rustiche panche che, per l'occasione, dalla fuligginosa cucina venivano portate nelle affollate stanze destinate al gioco.

Nella stessa casa c’era anche chi preferiva giocare alla “paria”. Uomini e donne ci raccoglievamo attorno alla buca che, immediatamente dietro la porta d'ingresso, era stata appositamente scavata nel pavimento. In quell'angolo, tutti insieme, passavamo lunghi pomeriggi ed intere serate.

Nel ricordo ho rivissuto l’accanimento di  Tita e di suo fratello Pepè...; ho risentito echeggiare la sonora risata con cui  Angelina soleva sottolineare una sua vincita, (avvenimento che lei attribuiva a bravura personale, più che a fortuna, ma che in verità era da assegnare alla occasionale circostanza  di riuscire a far cadere nella “fossetta” una quantità di noccioline corrispondenti a un numero pari..);  ho  ricordato la disperazione di Montagnina Pilè quando perdeva i suoi pochi spiccioli e la dignità con cui la signorina Tetè affrontava la sfortuna al gioco...

Il treno lacerava il buio della notte e correndo verso il sud offriva ai miei occhi ora lontani panorami ovattati dalla fitta nebbia, ora vicinissimi scorci di abitati risplendenti di mille policrome insegne e delle prime luminarie natalizie già accese.

Sulle colline dell'alessandrino i paesi appollaiati sembravano tanti presepi... Nessuno, però, dei miei occasionali compagni di viaggio dimostrava il minimo interesse per il paesaggio. Nello scompartimento in cui avevo trovato posto, già a Torino erano venuti a sedersi una signora con un suo nipotino, un anziano siciliano e, buon ultimo, uno studente universitario. Dopo meno di due ore di viaggio il bambino già russava sonoramente, disteso accanto alla nonna intenta a sfogliare una rivista di cronaca e pettegolezzi rosa; il  giovane universitario riordinava gli appunti presi durante la lezione del giorno e l'ex vigile urbano di Carlentini, che ritornava in Sicilia dopo essere stato per qualche settimana ospite della figlia a Susa, era intento a completare un cruciverba.

Col naso appiccicato al vetro del finestrino, continuavo a guardare il panorama notturno. In particolare, mi incuriosivano gli strani, ondeggianti, movimenti generati dalla luce dello scompartimento man mano che dall'interno si rifletteva sulle siepi e sui prati vicini alla linea ferrata.

Un fischio acuto, improvvisamente, è echeggiato nella notte. Poi uno stridio dei freni ha fatto rallentare la corsa al treno... e, appena usciti dalla galleria ci siamo fermati nella stazione di Genova. Molti passeggeri si sono affrettati a salire. A me, istintivamente, è venuto l'impulso di scendere.

Nella città della lanterna ho vissuto un breve periodo della mia gioventù. Ma quella voglia di interrompere il viaggio non era determinata dalla nostalgia di Piazza De’ Ferrari, di Corso Italia o di Via XX settembre; nè è stata Sturla, Nervi o Quarto che hanno provocato il “mio ritorno al passato”. Quella sera, grazie ad uno di quegli improvvisi “flashback” che di tanto in tanto ci riportano ai tempi passati, ho rivisto l'ospedale militare nel quale ti eri “imboscato” e poi, come in una successiva sequenza cinematografica ti ho visto, in doppiopetto gessato e, in un solo attimo, ho rivissuto quel lontano pomeriggio di primavera quando hai voluto farmi da Cicerone per i vicoli e per i vari nigth del porto e per la assai celebre  “via Pre’ ”.

            Il treno aveva appena ripreso il suo viaggio allorché una allegra e rumorosa comitiva di giovani, canticchiando motivi natalizi e arrivando dalla vicina carrozza, ha invaso il corridoio cercando  di farsi largo tra i passeggeri che, lasciati gli scompartimenti, fumavano una sigaretta prima di  rientrare per provare a dormire un poco. Quel motivetto antico e familiare, quella comitiva, quello stare insieme allegramente, quell'aria di festa che animava tutti, ha generato un altro mio istintivo ritorno al passato.

Mi sono ritrovato sull’autobus di Foresta insieme a te, a Pepè, a Bruno, a Rocco Macrì,  a Ciccio Cordiani, a Nino Sorrentino, a Vincenzo Greco....

Tutti insieme formavamo l'allegra comitiva che tornava a casa per le vacanze di Natale. Volutamente ci sedemmo tutti sugli ultimi sedili. Già alla “succursale”, pochi minuti prima della partenza, non c’erano più posti a sedere ed a Villa San Giovanni  lo sgangherato autobus si riempì come un uovo. Naturale, dunque, che sui tornanti di Bagnara arrancasse, sbuffando rumorosamente. Si procedeva a lentissima andatura e sembrava che non si arrivasse mai.

Pepè, quando fummo sui “Piani della Corona” e una leggera foschia obbligò l'autista ad accendere i fari, per animare la comitiva avvicinò le mani alla bocca e dopo averle ben chiuse tra loro serrando le dita, cominciò a soffiare tra i due pollici emettendo un suono simile a quello dello zufolo.

Riusciva a riprodurre una nenia natalizia e varie marcette in modo così verosimile che, piano piano, fummo letteralmente travolti da quel ritmo. Bruno, Rocco Macrì e, poi, via via, tutti gli altri, improvvisandoci suonatori di zampogna, di tamburo, di triangolo o di piatti, lo accompagnammo riuscendo ad eseguire  quei motivi che, a detta di molti divertiti viaggiatori, nella sonorità e nella melodia risultavano assai  simili a quelli che, a quei tempi, nelle varie feste paesane, eseguiva la giffonese “banda pilusa” del maestro “Peppi Rafeli”.

            Al di là della discutibile qualità della musica, era  sicuramente quello il modo più semplice e naturale per esternare la gioia di vivere e l’allegria che nasceva dal ritorno a casa e, soprattutto, dall'ormai imminente festività natalizia.

Quelle nenie ritmate non le sento più da moltissimi anni. Nitide, però, mi sono tornate alla memoria, su quel treno che nella notte, qualche settimana addietro, mi riportava alla realtà di una fine secolo e di un’epoca che con la sua tecnologia ha fagocitato la spontaneità e la semplice creatività della nostra infanzia. E non si può dire che non fossimo degli ingenuoni. Io e te, insieme a tutti i giovani della nostra generazione.

Ingenui eravamo quando la notte di San Silvestro, dopo aver consumato qualche torrone, una “pitta di San Martino” e una “zippula cu’ meli”, (specialità che si poteva gustare solo a casa tua) restavamo seduti attorno al tavolo della stanza da pranzo e, qualche minuto prima mezzanotte, dopo aver preso un qualunque testo scolastico, iniziavamo a leggere su una pagina a caso. Lo facevamo su consiglio della tua affettuosa e premurosa mamma, la quale soleva ripeterci che la nostra attività scolastica avrebbe avuto esito sicuramente lusinghiero se studiando avessimo atteso l'arrivo del nuovo anno. E noi, un po' perché speravamo che fosse vero, un po' perché non volevamo deludere le aspettative dei tuoi genitori, eravamo sempre pronti a leggere una pagina di sintassi latina, di storia o di algebra sotto gli occhi compiaciuti e beneauguranti dei tuoi familiari, nonno compreso; in particolar modo di Don Alfonso a cui, come sempre in quelle occasioni, brillavano gli occhi dalla commozione.

 

* * *

 

Non sembra vero: ma, caro Pino, vedi quanti momenti della nostra fanciullezza e della prima gioventù ho rivissuto nel ricordo? 

E’ bastato poco.

Mio nonno, con amorevole saggezza e con la cultura dei semplici, soleva ripetermi che non bisogna mai prendere una pietruzza dall’ “armacera”[11],  perché, togliendone una sola, anche quella che per le sue ridotte dimensioni sembra la più insignificante, involontariamente si può determinare il crollo di quelle grandi, mettendo a repentaglio la stabilità dell'intero muretto. Mio nonno parlava dall'alto della sua esperienza acquisita nella quotidianità della vita. Ed aveva ragione. Quella sera di inizio dicembre, varcando l'ingresso della “Rinascente”, non avrei immaginato che in quel grande magazzino avrei incontrato un ragazzo che coi suoi acquisti, inconsapevolmente, mi avrebbe spinto a togliere una pietruzza dalla mia grande, solida ma sopita “armacera” di ricordi.

Invece è accaduto.

La pietruzza che, con la collaborazione involontaria del rossiccio bambino torinese, ho tolto dalla mia “armacera” ha determinato, nell’universo dei miei ricordi, la caduta di tantissime pietre. Pietre  grandi come macigni insieme a tanti minuscoli ciottoli che, tutti insieme, però, in me hanno dato vita a momenti di dolci  rimpianti e di magiche rivisitazioni del passato.

Proprio quella pietruzza, tolta all’interno della Rinascente, mi ha fatto rivivere momenti di spensierata creatività adolescenziale; momenti che appartengono ai Natali più poetici e più intimamente vissuti di tutta la mia vita. Natali senza sfolgorii di luci ma ricchi di piccole cose e di grandi, profondi e sinceri sentimenti: l’amicizia, la stima, il rispetto reciproco...

Natali ricchi di spiritualità e sempre vissuti all’insegna del più schietto insegnamento cristiano...

Natali  trascorsi  all'ombra del presepe attorno al quale, la sera, si riunivano tutti i componenti la famiglia per godere il calore della festa e sentirsi veramente più buoni.....

Natali senza sfarzo e ancora assai lontani dall’odierno dissacrante consumismo....

Natali passati  accanto ai nonni che ci entusiasmavano coi loro racconti popolari....

Natali che le giovani generazioni, oggi che la società computerizzata viaggia spedita verso il terzo millennio, non concepirebbero più....  Anzi, non concepiscono.

Natali che avevano il profumo delle zeppole calde e che, puntualmente, mi facevano trovare la mamma accanto al braciere mentre, premurosa, si affrettava ad approntare i fichi secchi, le noci e l’uva sultanina che, insieme al mosto cotto, erano gli ingredienti indispensabili alla preparazione di quei buoni dolcetti che  avrebbe realizzato in prossimità delle feste e che caratterizzavano i miei Natali,  tanto simili ai tuoi....

            Natali che si identificavano nel febbrile e convulso lavoro di mio Padre, a cui le commesse arrivavano sempre numerose e, per essere preciso e puntuale coi clienti, ricorreva alla temporanea assunzione di diversi operai di fiducia...

Questi, i Natali d’altri tempi che ho rivissuto...

Non mi chiedo che effetto produrrà in te questo mio scritto. Lo immagino. E’ troppo facile immaginarlo. So già che lo leggerai con curiosità e che, come se ti prendessi per mano, anche tu, accanto a me, ripercorrerai vecchie strade e rivivrai momenti spensierati e felici. Anche tu, come me ed insieme a me, tornerai indietro nel tempo per rivisitare luoghi cari per rivedere con gli occhi della memoria persone indimenticabili. Prime tra tutte i nostri genitori che, ormai, ci hanno salutato e poi, insieme a loro, i tanti, i tantissimi amici che non ci sono più ed a cui, in questo Natale 95, va il nostro affettuoso ricordo ed il nostro rimpianto.

A cominciare dall'indimenticabile Don Bruno fino ad arrivare, via via, a Pepè, ad Angelina, alla signorina Tetè, a Don Angelo…

Vedi quanta strada abbiamo ripercorso sul filo della memoria, Pino? Ricordando i lontani, semplici Natali della nostra infanzia, della nostra adolescenza e poi della nostra gioventù, per effetto di uno di quei magici prodigi di cui sono artefici solo gli esseri soprannaturali, è come se ci fosse stato concesso il privilegio di tornare indietro nel tempo e rivivere tante minuscole schegge di vita....

Fortunatamente, però, la vita non è solo passato ed è bella e ricca di sorprese soprattutto perché, giorno dopo giorno, cerchiamo di scoprire ciò che riserba al nostro  futuro; futuro nel quale i Natali non avranno più la voce del vecchio amico zampognaro e, quasi sicuramente, a nessuno farà più venire in mente l'idea di creare l’effetto fuoco avvolgendo la lampadina nella carta rossa di un torrone....

Piccole cose, queste,  che hanno caratterizzato e reso  belli i nostri vecchi e semplici Natali!

Con l’augurio che Gesù Bambino ci riserbi ancora tantissimi Natali di pace, di vero cuore, auguro a Te, alla Tua Franca ed alla Vostra Raffaella, la stessa serenità che a Te ed a me  auspicava Tua Madre. 

Un caloroso, fraterno abbraccio, Umberto.

Galatro, Natale 1995

* * *

 

N O T E

* Il racconto <<La carta rossa del torrone>> è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "il mio Natale", Edizioni Proposte 2000
[1] Destinatario della missiva è l’avv. Giuseppe (per gli amici solamente e semplicemente Pino) Di Matteo, Ispettore capo presso il Ministero di Grazia e Giustizia, che dall’aprile del 1973 risiede a Cosenza.
[2] Era il nomignolo con cui  veniva identificato il  birocciaio sig. Vincenzo Ruggieri (1902-1978) che, giunto giovanissimo nel nostro paese dalla natìa Torre Ruggero (Cz, oggi Vibo Valentia), con il suo “carrozzino” per diversi decenni assicurò i collegamenti tra Galatro e i paesi della Piana. In particolare negli anni dell’immediato dopoguerra, prima con un robusto carro trainato da un mulo (il traìnu) e, negli anni sessanta, con un rosso “Leoncino” guidato dal figlio Rocco, settimanalmente, si recava a Gioia Tauro ed a Rosarno ove, presso alcuni grossisti di alimentari, provvedeva a ritirare la merce commissionata dai negozianti galatresi.
[3]

banda di pipitari: banda di pifferai . 
Il piffero che solitamente si accompagna alla zampogna, nel gergo popolare, ancora oggi è chiamato “pipita”.  Ne consegue che, così come il suonatore di zampogna è chiamato zampognaro,  il suonatore di piffero, invece, è definito
"pipitaru”.

[4] All’epoca la Messa di Natale non veniva celebrata a mezzanotte, come adesso, ma verso le cinque del mattino. Era veramente, cioè, quella che nella liturgia è conosciuta come Messa dell’Aurora. Anche per questo, forse, era considerata l’ultima ma la più importante delle messe “ante lucem”,  che caratterizzavano (e, fortunatamente, nel nostro paese, caratterizzano ancora) l’intera  novena.
[5] Don Bruno Scoleri (di Nicola e di Marazzita Maria Angela, nato a Galatro l'8.05.1911 ove è deceduto il 12.10.1971) ha retto la parrocchia di Maria SS. della Montagna dal 1° settembre 1946 al giorno della sua morte.
[6] Donna Jolanda : Ocello Maria Jole maritata al signor Angelo Cannatà  (3.3. 1901-2.6.1957) per tutti i galatresi era rispettosamente  Donna Jolanda. La signora era titolare del fornitissimo negozio di alimentari (con annessa cantina) da tutti conosciuto come “’a putica ‘i donna Jolanda”. Continuò ad essere così identificato anche quando, dopo la morte della titolare, il negozio è stato gestito dalla giovane figlia Franca.
[7] poglia : termine col quale, in Calabria, è definita la tavoletta di torrone.
[8] In casa di Pina Lamanna.
[9] Carmelo Raschellà.
[10] Tavernetta. Così era bonariamente ed amichevolmente denominato il laboratorio artigianale di sartoria che Pasquale Distilo aveva aperto in Via San Nicola,  ove aveva  appositamente fittato un "basso" di casa Cannatà (ora trasformato in garage).
[11] armacera : muro di pietre costruito a secco; sassaia. Deriva dal neogreco ermacia. Il nostro termine dialettale nasce dalla contrazione di "armare" e “maceria”.

 

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