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di
Gianluigi Da Rold
Quando si parlava della Fiat, dei suoi fasti e delle sue cadute, in
Italia si restava sempre approssimativi. Ed è cosa veramente strana,
perché la più grande azienda di questo Paese avrebbe meritato
un’attenzione costante, se non altro perché negli ultimi cinquant’anni
lo sviluppo, o meglio l’espansione economica del Paese, è stata
strettamente intrecciata alle necessità di produzione della Fiat.
L’unico fatto non misterioso è che si sapeva (fin dal 1946, quando in
Italia circolavano 500mila automobili) dell’esistenza di un “partito
torinese”, eufemismo per dire più discrezionalmente un “partito Fiat”.
Con più precisione, si poteva parlare di un “potere forte” della
grande azienda automobilistica, che poteva essere noto ai ministri più
importanti, ai grandi commis d’ètat, ai giornalisti parlamentari o a
quelli “iniziati” che stanno tutti nei grandi media nazionali. Questo
potere, diffuso e palpabile, tutelava l’azienda dalle indiscrezioni e
dalle inchieste giornalistiche fastidiose, pilotando poi direttamente
le grandi svolte che nell’azienda ci sono state e che non potevano
essere trascurate dai grandi giornali e dalle televisioni.
“Acquisti promozionali”
Capitò così che, negli anni Novanta, l’americano Alan Friedmann
e l’italiano Marco Borsa scrivessero due libri “fastidiosi” per
i proprietari della Fiat e che quei due libri andassero
paradossalmente esauriti per gli “acquisti promozionali” dello stesso
ufficio pubbliche comunicazioni della Fiat: quei libri erano quasi
accatastati in corso Marconi a Torino. Capitò così che la svolta del
1980, con Enrico Berlinguer in un famoso comizio d’autunno
davanti ai cancelli Fiat che prometteva l’aiuto del Pci a un’
eventuale occupazione, diventasse il propellente per la famosa “marcia
dei quarantamila” in un gioco mediatico ben orchestrato; così come lo
scontro fatale interno alla fabbrica tra Romiti (uomo della
finanza) e Ghidella (uomo degli ingegneri); così come l’entrata
e l’uscita del capitale libico, con interessanti conseguenze
borsistiche non proprio favorevoli ai risparmiatori; così come il
ruolo Fiat nell’intricata vicenda di Tangentopoli.
Insomma, il “grande potere” torinese si è tutelato mediaticamente
(probabilmente anche a fin di bene), ma ha creato una sorta di doppio
monopolio: la Fiat è l’unica azienda italiana a produrre
automobili; la Fiat è l’unica azienda italiana che i grandi media
trattano con il “dovuto rispetto”. Alla fine, però,
di “monopolio si può anche morire”.
Perché non sempre uno “splendido isolamento” permette di comprendere
appieno innovazioni tecnologiche, nuovi sviluppi del mercato, realtà
politiche e sociali in pieno cambiamento.
Buco nero
Può succedere quindi che per l’italiano medio, fino al 10 ottobre
2002, la Fiat, con il suo aristocratico “padrone” ammalato appartato,
resti una gemma in un grande capitalismo agli sgoccioli. E poi,
dopo l’uscita dei giornali del 10 ottobre, la Fiat diventi l’emblema
del triste e inevitabile declino di un certo tipo di capitalismo,
della grande impresa e di tutta l’Italia. In realtà, l’amara
scoperta dell’italiano medio è come quella “dell’acqua calda”. Da
almeno un anno si parla del “buco nero” della Fiat. All’inizio del
2000, un giornale “politicamente non corretto”(MF - Milano Finanza)
calcolava il debito della Fiat a 80mila miliardi di vecchie lire, ma
alcuni sofisticati operatori di rating tedeschi “sparavano” la cifra
di 150mila miliardi. Difficile orientarsi tra queste cifre, sapere se
sono esatte o meno, ma le percentuali di flessione del mercato
automobilistico in tutto il mondo stavano davanti agli occhi di tutti:
se i grandi marchi europei o americani perdevano il 7 per cento, la
Fiat perdeva il doppio esatto. E tutti gli “iniziati” parlavano di
quando General Motors avrebbe messo la sua unica bandiera sulla
gloriosa
“Fabbrica italiana automobili Torino”.
Soprattutto, a quale prezzo.
È difficile indicare le ragioni di questa parabola centenaria. Si può
partire dalla frase impietosa di Enrico Cuccia negli anni
Novanta:
«Ho consigliato all’avvocato Agnelli di comprare azioni Mercedes e poi
di non fabbricare più automobili»,
oppure guardare la decadenza di una fascia di utilitarie che il
mercato attuale rifiuta. Oppure si può pensare agli errori per alcuni
modelli, o ancora per non aver portato a termine ricerche su alcuni
settori trainanti (il fuoristrada, ad esempio, dopo che fu varata
tanti anni fa la “Campagnola”).
Dopo il crollo del Muro di Berlino
Più concretamente, a nostro parere, con il passare degli anni, il
management Fiat non ha creduto più nel suo “core business”, come si
dice, per abbracciare altri settori di investimento, trascurando così
quello dell’automobile. Forse la spiegazione reale dello scontro tra
Romiti e Ghidella sta proprio in questo punto. La svolta, poi, del
dopo “Muro di Berlino” è, a conti fatti, per la Fiat come il passaggio
dalla prima alla cosiddetta seconda repubblica italiana. Se per la
prima repubblica c’era un salvagente geostrategico che era scoppiato,
per la Fiat, la caduta del Muro si traduce, nel giro di poco tempo, in
mercato globale, competizione aperta, fine della protezione statale,
impossibilità di difendere il monopolio nazionale, anche dopo
l’assorbimento di marchi italiani prestigiosi
come “Lancia” (acquistata per una lira), “Alfa Romeo” (acquisto
rateale complicato e mai ben chiarito), una grande casa
automobilistica di cui Henry Ford parlava in questo modo:
«Quando vedo passare un’Alfa mi tolgo il cappello». In più, ci
permettiamo di azzardare solo un’ipotesi: nella complessiva
ristrutturazione del mercato mondiale, all’Italia è forse stata
assegnata una parte industriale marginale, senza cioè la possibilità
di avere una grande industria nazionale in alcuni settori strategici
della produzione.
Rassegnazione
È possibile che agli errori (anche quelli di valutazione politica
generale) si sia aggiunta una rassegnazione della dirigenza Fiat, fino
ad accettare la buona uscita della rendita, dolce e morbida, rispetto
alla battaglia quotidiana e cruenta del profitto nella complicatissima
società mondiale e postindustriale.
Realisticamente, noi non crediamo a un salvataggio italiano della
Fiat. Una classe politica più avveduta e un management industriale più
combattivo avrebbe dovuto pensare molto prima alla crisi Fiat. Resta,
al momento, il dolore per chi ci lavora, per quello che dovrà
sopportare, per il futuro. Resta ancora il dolore per quella massa di
immigrati italiani che si spostarono dal Sud al Nord per fare grande
la Fiat con il loro lavoro.
Resta il dolore di ogni italiano che ama il suo Paese, anche
attraverso il marchio di una grande industria in declino.
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