|
di Massimo Bernardini,
Che cosa strana Giorgio Gaber
con un nuovo disco (La mia generazione ha perso), assediato dai giornali,
intervistato dai tg, star su Raiuno per una notte con quel matto di
Celentano,
perfino ritornato in hit parade. Come se quelle 12 canzoni, dopo tanti
dischi-testimonianza live dai suoi spettacoli teatrali, fossero a sessant’anni
la fine di un esilio, per dorato e di successo che fosse. E oggi ce lo
ritrovassimo accanto più arrivabile e diretto. Le parole poi, dedicategli a
sorpresa nel disco (non l’ha saputo se non dalle prove di stampa della copertina
del cd) da gente come Mina, Alberoni, Antonio Ricci, De Bortoli,
Lerner, Albertini, persino Fausto Bertinotti. E, sorpresa fra le sorprese, quelle di don
Giussani, che per primo aveva sorpreso il nostro citando, del cantante attore
milanese, la sua straordinaria
Canzone dell’appartenenza agli Esercizi
Spirituali della Fraternità. «L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé.
Che suggestione - recita un frammento del fondatore di Cl nel disco -in
queste parole di Giorgio Gaber! In un popolo sempre il genio illumina aspetti
dell’esistenza, assicurando a tutti e a ciascuno una più matura coscienza delle
evidenze e delle esigenze elementari del cuore. L’appartenenza è un’evidenza
naturale: se l’uomo non appartenesse a niente, sarebbe niente. Essa implica
naturalmente il fatto che un io, che non c’era, adesso c’è. L’uomo non c’era,
dunque è stato fatto da un Altro, così come il cosmo».
Gaber, che effetto le fa
la presenza di uno scritto di Giussani nel suo disco (unico degli ospiti, fra
l’altro, a concluderlo con un Grazie)? C’è qualcosa
dentro di talmente impegnativo da farmi avvertire uno scarto, quasi un lieve
imbarazzo. Ma la stima nei suoi confronti è grande: sono molto onorato di questa
attenzione nei miei confronti (anche se lui, sbagliando, insiste a dire che a
sentirsi onorato è lui). Avverto nel suo sentire forti punti di contatto, come
se la mia fede laica derivasse da quel nocciolo di fede cristiana. Don Giussani
porta l’idea dell’appartenenza in una zona che mi… appartiene, che sento
mia. E poi mi piace perché è una persona così riservata, così assente dal
pubblico chiacchiericcio anche di certi suoi noti colleghi. E indubbiamente mi
ha colpito il suo grazie finale: un segnale che fa parte della sua discrezione,
del suo essere fuori dei giochi.
La mia generazione ha
perso è stato avvertito da molti come un
giudizio implacabile sull’Italia del 2001. Che effetto le fa oggi il nostro
Paese? Più tristezza che orrore. Il mondo
occidentale in generale mi suscita orrore, l’Italia invece mi suscita tristezza.
La sento travolta da un’inarrestabile decadenza. Le faccio un esempio attraverso
la televisione. Ho contribuito alla prima fase della tv italiana: noi che la
facevamo eravamo sorpresi e intimiditi dalla forza del mezzo (in 45 secondi
diventavi qualcuno in tutto il Paese). La sorpresa era nell’effetto unificante,
la Tv era un luogo che intimoriva all’interno e suscitava entusiasmi
all’esterno. Adesso è tutto alla rovescia: sono allegri quelli che la fanno e
annoiati quelli che la vedono. Quanto poi al tema de La mia generazione ha
perso, è stato certamente giusto lottare per una consapevolezza
nuova, ma poco alla volta ci siamo accorti che qualcosa si rompeva, che il
nostro era sempre più uno «sviluppo senza progresso», come avvertì
Pasolini.
L’individuo è ormai travolto dal mercato e dal consumo, non abbiamo saputo dare
un senso al superfluo. Ci siamo allontanati da chi lo subiva lasciando che
corrompesse il popolo. Il difficile dopoguerra dei nostri genitori ci aveva
messo davanti un mondo in cui avanzare verso il meglio; noi invece lasceremo ai
nostri figli solo incertezza sul futuro. Oggi si fa un gran dire: i genitori
devono parlare coi figli. Sì, ma di cosa, se non hanno più niente da dire? In
questo senso la nostra generazione ha perso, è passata dall’opposizione ai padri
autoritari al nostro niente, a una autorevolezza mancata. Vengo dalla guerra, da
una città distrutta: noi avevamo davanti un mondo tutto ancora da conquistare.
Nei ragazzi di oggi, invece, sento il rischio della mancanza di un futuro da
conquistare, che li fa oscillare fra il velleitarismo e la
depressione.
Nel disco c’è una canzone
molto intensa che mi pare contenga anche un riferimento autobiografico, o almeno
generazionale, Quando sarò capace di amare. Lei, dopo trentasei anni di matrimonio, ci è
riuscito? No, non sono riuscito a imparare. Con
Ombretta, mia moglie, c’è un grande patto, un noi molto presente per cui
abbiamo molto resistito, senza che mai abbia prevalso l’idea di dividersi. Anche
nei momenti difficili è come se avessi sempre pensato che quella era la mia
vita, una scelta definitiva. Non c’era il poi vediamo come va, mi è
sempre sembrato per sempre.
Nel 1965 vi siete sposati
in chiesa. Perché era una festa, mentre quello in Comune era una sorta di
contratto patrimoniale di fronte allo Stato: mi sarebbe sembrato volgare. Invece
il matrimonio in chiesa era un rito antico che forse veniva prima del
cattolicesimo, ma comunque era il Sacro. Un punto di partenza che
affermasse che l’importante per una coppia è dedicare la propria vita all’altro:
a che serve conquistare il mondo, se non hai qualcuno a cui dedicarlo? Forse
l’avventura non ci è riuscita completamente, ma il desiderio c’è ancora. A volte
ci siamo battuti in maniera solitaria, ma abbiamo mantenuto questo legame che
viene da una tradizione antica.
Ha fatto rumore un verso
suo e di Luporini ne La mia generazione ha perso, in cui auspichereste
che «una Chiesa che incalza più che mai… sprofondasse con tutti i Papi e i
Giubilei». Io, credente profondamente laico, sento in questo continuo
allargarsi sulla scena solo un fenomeno di massa. La Chiesa è una cosa sacra,
non può intervenire nel dibattito come fosse Mediaset o la Rai. Per
questo sento che oggi quelli che stimo dentro la Chiesa devono fare molti
sacrifici.
A metà agosto tornerà per
la terza volta al Meeting di Rimini. Cosa vuol dire incontrare quel
popolo? Mi sono trovato bene. Non ho capito bene perché, ma mi sono
trovato bene. Hanno cominciato con Io se fossi Dio: ma come, ho pensato,
io sparo a zero contro un certo mondo e questi che ne provengono mi vengono a
cercare? E poi ragazzini così giovani che vanno dietro a domande così
drammatiche? Così è cominciata. Ma quello che non è mai finito è stata la voglia
di parlare: sono gente che ha voglia di parlare del mondo, della vita. Per
questo mi viene da dire che sono bravi. In fondo ne so poco, ma per me, laico,
la cosa pazzesca è constatare che dove si accettano ancora i dogmi si vuole
parlare del mondo e della vita, mentre là dove non si accetta più nessun dogma,
e dunque apparentemente si dovrebbe essere più liberi, non si ha più voglia di
parlare di niente. Passano per integralisti? A me personalmente non risulta. Non
so nulla di Compagnia delle Opere ed affini, ma da laico sento che il mondo di
Cl mi ha sempre accettato. In giro sento parlare di una specie di spirito di
setta: per quello che ho incontrato io è esattamente il
contrario.
|