Che la Calabria -
regione che certa cultura "padania" non perde
occasione per bistrattare - sia stata culla di civiltà
è ormai un fatto, oltre che accertato, quanto mai
assodato.
Lo
documentano, in modo inconfutabile, le testimonianze
artistiche che, in maniera tangibile, possono vantare
tutti i nostri paesi. Anche quelli che oggi, tagliati
fuori dalle grandi vie di comunicazione, vengono
considerati come facenti parte
dell'"entroterra".
Uno di questi è
sicuramente Galatro che, situato in fondo ad una valle,
ricco di acque ed incastonato nel verde argentato degli
olivi ed in quello cupo degli aranci, vanta una
interessante e plurisecolare storia di civiltà e di
cultura.
Ne è testimonianza il cinquecentesco trittico
marmoreo che, con la sua imponente struttura, costituisce la
parte monumentale dell'altare maggiore della chiesa arcipretale
"San Nicola". Quest'opera rappresenta la più
importante testimonianza artistica dell'intera zona ma documenta,
soprattutto, il grado di cultura e di civiltà cui era pervenuta
Galatro nel lontano cinquecento quando gli influssi
rinascimentali erano presenti nella comunità galatrese sia in
campo letterario che in quello artistico.
Tutto
ciò oltre che per la viva intelligenza dei cittadini
indigeni anche per la massiccia presenza di quei monaci
greco-bizantini che, rifugiatisi in queste zone interne
della Calabria, per erigere alcuni dei loro più
importanti monasteri (Sant'Elia di Copassino, San
Salvatore della Chilena, Santa Maria di Palangati, ecc.)
scelsero proprio il territorio galatrese.
Ai
basiliani seguirono, poi, i Cappuccini che sin dal giorno
della loro "Riforma", vollero stabilirsi a
Galatro andando ad abitare il vecchio convento
"Sant'Elia" che, da qualche tempo, era stato
abbandonato dai monaci dell'ordine di San Basilio Magno.
Grande importanza, nello sviluppo
socio-artistico-culturale dei cittadini di Galatro - allora per
la stragrande maggioranza impegnati nella lavorazione e nella
commercializzazione delle pelli, (le rinomate
"cordovane") - ebbero, dunque, i rappresentanti del
mondo monastico. Non minore, però, ne ebbero i feudatari che si
sono succeduti nella proprietà del paese, i quali, non di rado,
hanno operato con la magnanimità che contraddistingue i veri
mecenati.
E' il caso del nostro altare che giunse nella
valle del Metramo grazie alla generosità di un feudatario
particolarmente sensibile ai problemi connessi alla divulgazione
del culto ed a quelli inerenti la diffusione dei principi del
Cristianesimo e della Religione cattolica.
Il
trittico di Galatro, nei primi anni di questo secolo, è
stato "attribuito" allo scultore Antonello
Gagini (1478-537) e fino al 1783 costituiva l'altare
maggiore della chiesa basilicale "Santa Maria della
Valle", completamente distrutta dal terremoto del 5
febbraio di quell'anno.
Tale chiesa, imponente nelle
forme architettoniche, ricca di arredi di pregio e di
artistiche statue, fu costruita nei primi anni del secolo
XVI per espressa volontà di Andrea III della Valle, uomo
assai erudito, già canonico di San Pietro, che dal
febbraio 1508 a giugno 1523 fu vescovo di Mileto.
La chiesa galatrese, pertanto, -
fatta erigere in "suolo lateranense" - prese il
nome dal casato dell'alto prelato (il Della Valle sarà,
poi, cardinale) che la volle realizzare nel
"suo" feudo giacché Galatro, sin dai primi
albori del XV secolo e fino 1721, appartenne per
metà al Vescovo di Mileto e per metà ad un principe
laico.
(Il 21 luglio del 1721 il vescovo
Mons. Domenicantonio Bernardini, pur riservando per sè e
per i suoi successori il titolo di "Baro
Galatri", ha ceduto in "emphiteusim" la
sua metà al Principe Don Giovan Domenico Milano-Franco,
marchese di San Giorgio e di Polistena che, essendo già
proprietario dell'altra metà, divenne unico feudatario
del paese fino a quando, nel 1806, con legge napoleonica,
non fu soppressa la feudalità).
Successivamente al terremoto del 1783, quando
l'intero paese fu totalmente ricostruito su un nuovo
"sito", si pensò di utilizzare il trittico monumentale
- miracolosamente scampato al "flagello", nonostante
fosse stato totalmente seppellito dalle macerie della chiesa -
spostandolo nella nuova parrocchiale San Nicola, ove ancora oggi
è visibile in tutta la sua imponente maestosità ed in tutto il
suo splendore artistico.
Le statue che compongono il trittico, da sinistra
a destra, raffigurano San Giovanni Battista, Santa Maria della
Valle e San Giovanni l'Evangelista.
Giovane abbastanza
forte, ben conformato nei particolari somatici e perfetto
nelle proporzioni anatomiche, appare il Battista.
La pelliccia che lo copre
dall'addome fin sopra le ginocchia ricorda la prima
giovinezza del Santo allorché abbandonò la seducente
mondanità per la solenne quiete delle selve e per le
convinte predicazioni.
Sereno nel volto, il
Battista con ambo le mani regge il libro che ha poggiato
sul fianco sinistro mentre ha lo sguardo fisso verso un
punto lontano.
L'artista ha, forse,
voluto fermare nel marmo l'espressione che il Battista
aveva nel momento in cui è andato incontro al Divin
Nazareno.
Un agnello, appena
sbozzato, è sul lato sinistro del basamento.
Nella nicchia centrale
è la Vergine col Bambino a cui, in onore del
Vescovo-mecenate fondatore della Chiesa, è stato dato il
nome di Santa Maria della Valle.
La figura della Madonna - col
volto piccolo, dolce, dalla fronte ampia e luminosa, con
sopracciglia appena accennate, le palpebre chinate, quasi
a velare lo sguardo, un lieve sorriso che non schiude le
labbra ma che fa intravedere una infinita pace interiore
- appare quanto mai delicata.
Dal centro della fronte due
ciocche simmetriche di ondulati capelli si dipartono,
incorniciando il volto, mentre il capo è coperto dal
velo che scende sulle spalle e che le fascia, fino a
lasciar congiungere i lembi sotto i piedi del Bambino,
che sorregge sull'avambraccio sinistro. Il Bambino
Celeste, completamente nudo, alza il braccio destro
benedicente verso la folla.
La statua poggia su uno
scannello esagonale a facce rettangolari.
Tre di queste facce sono
istoriate da altrettanti bassorilievi.
Nel primo, quello centrale, è
rappresentata la nascita di Gesù (con la stalla,
Giuseppe e Maria, un pastore sull'estrema destra, le
pecore, l'angelo, l'asino, il bue e, naturalmente,
adagiato sulla paglia, il Redentore Neonato).
Sul lato sinistro c'è
l'Annunciazione: un angelo si genuflette con un giglio in
mano; sul lato destro è, invece, raffigurata la Madonna
che, inginocchiata, riceve lo Spirito Santo sotto le
allegoriche sembianze di una colomba.
L'ultima statua, quella
di San Giovanni Evangelista, è sicuramente la più
importante e la più riuscita dal punto di vista
artistico.
Robusto
e forte, l'Evangelista lascia trasparire il travaglio
interiore attraverso alcuni dosati colpi di scalpello che
sembrano abbiano scavato il volto.
Con la testa leggermente chinata
e girata verso destra, il Santo fissa il suo pugno
chiuso. Perchè?
Riteniamo che in quella mano San
Giovanni reggesse una croce e sollevandola in maniera
decisa, a quanti si accostavano a lui per sentire la
parola evangelica, la mostrasse come la bandiera della
nuova Fede.
Per questo, a guardar bene, nei
suoi tratti somatici sembra leggere l'invito a seguire
quella croce che, sul Golgota, è diventata il simbolo di
un grande olocausto. (Se la nostra intuizione è fondata,
non riusciamo a spiegarci il motivo per il quale, dopo il
terremoto del 1783, nessuno abbia più provveduto a
rimettere nella mano del Santo Evangelista una croce di
legno!).
La mano sinistra (assai simile a
quella del Battista anche nella posizione del pollice e
dell'indice) regge un grosso volume che, poggiato sul
fianco, simboleggia certamente la sua Apocalisse, i
Vangeli e le Epistole.
Ricercato è il drappeggio della
tunica e del manto.
Sono stati i funzionari della Sovrintendenza ai
monumenti di Napoli che, comparando le statue galatresi a quelle
esistenti in molte chiese della Calabria e della Sicilia, hanno
"attribuito" le tre sculture che danno corpo al
trittico marmoreo della chiesa San Nicola di Galatro al
palermitano Antonello Gagini dalla cui bottega messinese a
diecine uscirono le statue dirette alle più importanti chiese
siciliane e calabresi. Fino ad oggi trattasi di una semplice
attribuzione. Non si dispera, però, che le meticolose (e, da
parte nostra, mai interrotte) ricerche d'archivio possano
sfociare nel rinvenimento dei documenti che consentono di dare
alle statue la loro indubbia e definitiva paternità.
Intanto, quasi a conferma della loro importanza
artistica, da alcuni anni, le tre statue sono diventate argomento
di attenti studi da parte dei giovani della facoltà di
architettura di Reggio Calabria.
Qualche critico è portato a ritenere che le tre
statue evidenziano due diversi stili di lavorazione e di
impostazione artistico-scultorea.
In effetti
lo stile dei due "San Giovanni" si differenzia
da quello della Madonna. Ciò non impedisce, però, di
pensare che tutte e tre le statue siano state concepite
dal Gagini. Solo che, molto probabilmente, - forse, per
la sopravvenuta morte dell'artista - la scultura della
Vergine potrebbe essere stata ultimata da qualcuno dei
figli (Giandomenico, Antonio, Fazio, o Giovan Vincenzo) o
da qualcuno dei suoi numerosi discepoli.
Non c'è dubbio, però, che la
statua sia stata ideata da Gagini.
Per convincersene basta
confrontarla con le numerose altre "Madonna col
Bambino" che si trovano nelle varie chiese di
Calabria: stesso atteggiamento, uguale impostazione,
identica scioltezza di movimenti delle pieghe, medesima
espressione del Bambino che guarda alla folla abbozzando
un innocente sorriso. E, non ultima, uguale dolcezza
espressiva del volto ovale della Divina Madre ed identica
impostazione dello scannello di base.
Come se ciò non bastasse l'intero altare, anche
per l'impiego dei marmi, è uguale a quello che, eseguito su
commissione del Duca di Monteleone e viceré di Sicilia Ettore
Pignatelli, ancora oggi, nella sua maestosa bellezza, può essere
ammirato nella chiesa di San Leoluca di Vibo Valentia.
Sulla paternità del trittico di Vibo non ci sono
dubbi: le statue sono "firmate" e "datate".
Un motivo in più per ritenere che anche queste di Galatro - che,
ripetiamo, anche nell'impiego dei marmi sono del tutto
simili a quelle vibonesi - sono state create dall'estro
artistico di Antonello Gagini.
Un particolare da non
sottovalutare: il bassorilievo che, spirato al tema della
Natività, è stato realizzato dall'artista palermitano
sul lato centrale dello scannello esagonale che fa da
base alla "Madonna col Bambino" del trittico
che costituisce l'altare monumentale della Cappella delle
Anime del Purgatorio del Duomo di Vibo, è completamente
simile a quello della statua di Galatro.
Tutto ciò è abbastanza
significativo ed importante.
Soprattutto al fine di stabilire
la paternità di questa statua che, come detto, c'è
qualcuno che vorrebbe attribuire ad uno scalpello diverso
da quello di Antonello Gagini.
Anche questo è tutto da provare ed una parola
definitiva potrebbe venire da esperti conoscitori della scultura
gaginesca oltre che dalla Soprintendenza.
In questo senso sarebbe necessario che la
"intellighenzia" galatrese si prodigasse per dipanare
la matassa e, sulla scia di quanto nei primi anni del secolo è
già stato fatto dal sindaco del tempo prof. Francesco Lamari e
dal parroco Don Bruno Antonio Marazzita, si avviassero tutte le
iniziative ritenute necessarie per cercare di valorizzare
un'opera della quale tutti i cittadini di Galatro dovrebbero
andare orgogliosi.
Sull'altare -
realizzato in marmi policromi, mentre le statue sono in
marmo di Carrara - e al centro di un quadrilatero ai cui
lati trovansi due snelle colonne, nel corso dei lavori di
restauro del 1914, è stato collocato un altorilievo
riproducente l'occhio del Creatore posto in un triangolo
equilatero dal quale partono raggi di luce per ogni
direzione. (Fino a quella data, allo stesso posto, era
inserito un settecentesco altorilievo raffigurante un
piccolo Cuore di Gesù).
L'altare
termina con in cima lo stemma pontificio situato al
centro di una cornice triangolare a cui il vertice è
stato tagliato, mentre sui lati esterni della cornice, da
cui si diparte l'attico, snelle si alzano due guglie.
Originale e delicato il tempietto
che dà forma alla custodia sul fregio della quale
l'artista ha riproposto il verso di Ezechiele:
"Solem nube tegam".
Un'opera d'arte insomma, questo cinquecentesco
altare, che nell'eloquente linguaggio dell'arte e "vincendo
di mille secoli il silenzio" ancora oggi testimonia il grado
di cultura di un paese che in passato seppe emergere fino a
diventare culla di avanzata civiltà.
N O T E
*
dal
trimestrale:
BANCA POPOLARE COOPERATIVA di PALMI,
periodico di Economia e Cultura